Nato a Teheran nel 1950, ha girato il mondo prima di trovare la terra d’elezione sulla collina fiesolana: è stato in Francia, Inghilterra, Stati Uniti e infine in Italia dove a Milano iniziò gli studi di composizione. Li proseguì al conservatorio Cherubini di Firenze, città in cui Khacheh si trasferì sia per le difficoltà e i disagi (anche climatici) vissuti nel capoluogo lombardo, nonostante la bontà del conservatorio, sia per l’ansiosa e costante ricerca di un luogo «bello, artistico e solare» dove poter vivere.

Aveva cominciato gli studi al Conservatorio della sua città natale dedicandosi alla chitarra, al contrabbasso e al clarinetto, ma si era nutrito di musica fin da piccolo quando aveva imparato a suonare la fisarmonica e il pianoforte. Come tanti giovani, era insofferente della disciplina, e «dopo dieci minuti che studiavo mi mettevo a improvvisare, a giocare con la musica, arte che, priva di parole, dà una libertà senza compromessi». E vivendo sotto una dittatura feroce come quella dello scià, questa divenne una consolante consapevolezza. Nonostante l’occidentalizzazione forzata imposta dal regime (oppure proprio grazie a questa) tanti iraniani hanno avuto l’opportunità di ascoltare musica occidentale eseguita dall’orchestra sinfonica di Teheran e di assistere a opere di Puccini, Verdi, Donizetti messe in scena dall’Opera della stessa città.

Ma il motivo che spingeva Khacheh verso il nostro paese non era tanto la musica quanto l’amore per il nostro cinema: i film di De Sica e Rossellini, che mostravano con vivo e cosciente senso critico i gravi problemi del dopoguerra, affascinarono Khacheh, come molti altri suoi connazionali.

Giunto nel Belpaese il giovane persiano si rese subito conto che gli italiani dell’Iran non conoscevano niente, «a parte lo scià, il gatto persiano e i tappeti». Ma trovò un’accoglienza calorosa e si sentì a casa. I problemi, semmai, erano legati alla possibilità di lavorare e di guadagnare. La questione, però, veniva risolta dai genitori che, via via in caso di necessità, gli spedivano l’occorrente. «La mia situazione era diversa da quella degli immigrati che arrivano oggi in Italia, poveri, alla disperata ricerca di un lavoro: io ero qua per spendere e per studiare».

Qualche anno prima del diploma, Khacheh cominciò a insegnare, e da allora non ha più smesso.

Nell 1993 EMA Vinci records e EMA Vinci edizioni capiscono la sensibilità del compositore e capiscono quanto sia importante offrire esempi di fusioni musicali derivanti da tradizioni diverse nell’ambito della musica colta, da allora ‘Kami’ (per gli amici) è esclusivamente prodotto da questi marchi.

In Italia, però, vivere di musica non è facile. È un lavoro precario, e «ci vuole un bel fegato a vivere così, sempre di corsa da una scuola all’altra; magari quando uno è giovane è più disposto al sacrificio, ma se ti vuoi sposare e mettere su famiglia, il discorso cambia. Io ho rischiato, e dal punto di vista della soddisfazione professionale, sono contento». Khacheh insegna alla scuola di musica di Certaldo, città dove vive, all’Accademia musicale di Firenze, in un college americano, sempre nel capoluogo, e ovviamente a Fiesole dove cominciò 26 anni fa insegnando armonia; dopo «ho inventato un corso di composizione base che negli anni ha avuto successo». È anche autore di musiche in cui le radici persiane sono robuste; ma da ragazzo non amava la musica tradizionale ed etnica, «la consideravo naif; ero molto attratto dalla musica occidentale. Vivendo in Europa, invece, piano piano ho scoperto la grandezza e la bellezza della musica del mio paese». Romano Pezzati, il suo maestro al Cherubini, gli ripeteva spesso: «guarda che la musica persiana è il tuo tesoro. Coltivala: con essa creerai il tuo linguaggio e il tuo stile».

Così è stato, e Khacheh ne è orgoglioso: «mi dà soddisfazione che dopo qualche battuta si riconosca che quella musica è mia». Anche se i suoi compatrioti storcono il naso, è riuscito a creare un linguaggio musicale del tutto personale che non è né persiano né occidentale; tanto per capirsi, è un po’ come il flamenco nato dalla mescolanza fra musica araba e spagnola o come il jazz germinato dall’incontro/scontro fra musica africana ed europea.

Khacheh si sente ancora totalmente persiano e i valori di cui si è nutrito nel suo paese sono vivi dentro di lui. E non solo quelli legati alla tradizione musicale, ma anche a quella letteraria: poeti come Khayyam, Rumi e Hafiz sono «enormi (paragonabili solo a Dante) ma intraducibili. Traducendoli, si perde tutto, come se volessimo tradurre Dante in persiano: la musicalità della lingua andrebbe a farsi benedire».

Infine sono ancora forti nel suo cuore quel senso dell’umanità, dell’ospitalità, dello stare insieme e della condivisione così tipici dell’Iran (anche se forse non è più così, date le circostanze attuali). Per questo si è trovato bene da noi: «c’è molta similitudine fra persiani e italiani». Anche se ora la situazione è cambiata sia per certi atteggiamenti xenofobi sia per il venir meno della solidarietà fra le persone.

Pur avendo nostalgia della madre, degli amici e dei parenti, «non credo che tornerò a vivere nel mio paese. Quando ci vado non mi trovo più». È tutto cambiato: Teheran ha 16 milioni di abitanti, è piena di autostrade, di grattacieli, senza il calore di una volta. «Sono andato a visitare il quartiere dove sono nato, ma è completamente diverso. Per cui, quasi sessantenne, mi trovo privo di radici. E le sto cercando qui».

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