Fortissimo / Pianissimo – Federica Lotti, Florindo Baldissera

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Claudio AMBROSINI – CARNIS ORE, CORDIS ORE (2018) for flute (and bass flute) and guitar

Camillo TOGNI – CINQUE PEZZI (1975/76) for flute and guitar
I Kōtílē chelidón
II Adoiástos
III Plèxis
IV Ámon anthos
V Hymnos

Niccolò CASTIGLIONI – SIC (1992) for piccolo, flute, alto flute and guitar
I Presto rigorosamente in tempo
II Andante sostenuto
III Molto calmo
IV Con fantasia
V Allegretto

Corrado PASQUOTTI – FILARI (1991) for piccolo and guitar

Francesco PENNISI – MÉLIÈS (1990) for flute and guitar, from “Le esequie della luna”

Bruno BETTINELLI – MUSICA A DUE (1982) for flute and guitar

LUCA MOSCA -VARIAZIONI Op. 73 (1995) for flute and guitar

Rosario MIRIGLIANO – IMPROPTU (1981) for alto flute and guitar

FLAUTO E CHITARRA: CINGUETTIO E FRULLO D’ALI
I brani più remoti sono i Cinque pezzi (1975/76) di Camillo Togni, il compositore più schoenberghiano dell’avanguardia musicale italiana del secondo dopoguerra. Schoenberghiano in qualche modo è anche il lungo riflesso culturale dei titoli dei brani, citazioni di antichi poeti greci. Non senza riferimenti alchemici. L’incompiuta storia dell’esodo ebraico è qui sostituita dall’incompiuta attuazione di un progetto culturale, quello della democrazia, come se entrambi i musicisti leggessero nel presente un tradimento del passato, che perciò andava recuperato non con la ripetizione ma con uno sconvolgimento, perché ciò che era apparso tradizione si era di fatto rivelato, più che come una mummificazione, come una sorta di deviazione dalla meta prefissata: la libertà, delle coscienze, dei popoli, delle culture. Adorno direbbe un tradimento della trasformazione, necessaria ma inattuata. Il brano più recente è Carnis ore, cordis ore di Claudio Ambrosini, del 2018. Cinquantadue anni separano le due pagine. Più di mezzo secolo. La classicità ellenico-egizia di Togni si fa in Ambrosini memoria latina, corpo e cuore contrapposti come in un esperimento alchemico. Dalla nigredo alla rubedo, direbbe Togni, ma con prevalenza dell’antimonio (Ámon anthos), cupa nigredo, che le acque del Nilo – il dio Ammone – non riescono del tutto a sciogliere. Ma in Ambrosini le acque sono acque lagunari, stagnanti, Venezia riecheggia quasi un secolo di nuova musica come un ricordo sospeso in aria sull’acqua. Soffi, tremolii, il fiato del flauto e il pizzico della chitarra conducono a un inequivocabile grido finale, l’oggi che ci sorprende e, forse, ci delude. Tempo di fine? di chiusura? un rendiconto? In mezzo le altre pagine. In ordine cronologico: Impromptu di Rosario Mirigliano, del 1981; Musica a due di Bruno Bettinelli, del 1982; Méliès di Francesco Pennisi, da Le esequie della luna, del 1990; Filari, di Corrado Pasquotti, del 1991; Sic di Niccolò Castiglioni, del 1992; Variazioni op. 73, di Luca Mosca, del 1995. Esclusi gli estremi, 1975 e 2018, tutte le musiche appaiono negli anni 80 e 90 del secolo scorso, dunque alla fine di un lungo percorso delle cosiddette avanguardie del secondo novecento. L’ordine cronologico dei brani non corrisponde all’ordine cronologico delle date di nascita dei compositori: Bettinelli, 1913; Togni, 1922; Castiglioni, 1932; Pennisi, 1934; Ambrosini, 1948; Mirigliano, 1950; Pasquotti, 1954; e Mosca, 1956. Togni ci ha lasciati nel 1993, Castiglioni nel 1996, Pennisi nel 2000. Il brano più recente, Carnis ore, cordis ore (con la bocca della carne, con la bocca del cuore), è del compositore, ancora tra di noi, che ha più anni sulle spalle. Questa pedantesca rassegna cronologica ha un senso. Tutti i compositori di cui qui si ascoltano le musiche sono legati in maniera più o meno stretta alle oggi vituperate, osteggiate avanguardie darmstadtiane e postdarmstadtiane. Tuttavia, anche un superficiale e fuggitivo ascolto coglierà senza dubbio, adoiástos, l’enorme differenza stilistica da compositore a compositore, pur in una certa aria di famiglia, su un sostrato per così dire comune. Ma non mi si venga a dire che questa è musica pensata sulla carta, una sterile scrittura che prescinde dal suono e dall’effetto che il suono possa avere sull’ascoltatore. Certo che è musica pensata, ma pensata com’è pensata ogni musica, anche il canto popolare, la musica rituale di qualunque società del mondo, musica pensata e pensata appunto come suono. Molti compositori oggi si sentono privati della gioia di una corrispondenza con un vasto pubblico, ma invece di chiedersi che cosa sia accaduto nella cultura contemporanea non solo musicale, vanno alla ricerca del capro espiatorio che permetta loro di aggirare il problema, e di riannodare i fili con una tradizione a loro dire colpevolmente tradita e abbandonata. Come se le trasformazioni della storia potessero cancellarsi con un frego. E la differenze di genere tra una musica “colta” e l’altra, differenza che c’è in ogni cultura, e non è affatto prerogativa della musica europea, è un’invenzione superabile. La poesia di Callimaco rese impossibile a un poeta ormai di scrivere qualcosa che assomigli all’Iliade o all’Odissea. Chi sa che Togni proprio questo intendesse dirci con i suoi titoli in greco antico, quasi un rito d’iniziazione, un mistero alchemico. Ermete Trismegisto dietro l’angolo. Come suggerisce anche Salvatore Sciarrino in Un’immagine di Arpocrate, del 1979, su frammenti del Faust di Goethe e del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein: Horus bambino. Un ritorno alla “madre”, alle radici del linguaggio, in cui trovare i modelli originari del pensare. In realtà, nonostante gli avvertimenti di Callimaco, si scrissero di nuovo poemi epici, ma Apollonio Rodio non è Omero, e tanto meno lo è Nonno. Le Argonautiche e le Dionisiache sono poemi epici solo per modo dire, senz’altro poemi, ma non più epici. O se lo sono, lo sono in modo assai particolare, così come un’Arianna a Nasso o un Capriccio sono ancora melodrammi o drammi musicali. O come finge di essere un poema epico di fondazione l’Eneide di Virgilio. Più lungimirante, Ovidio tralascia l’epica e scrive un poema sulle trasformazioni. Cioè sul divenire, un poema della conoscenza, sia pure attraverso il mito, come lo erano stati i poemi di Parmenide, di Empedocle e di Lucrezio, non senza guardare ai miti della Teogonia di Esiodo. Vero che gli epigoni delle avanguardie, come accusano gli antiavanguardisti, trasformano in accademia la rivoluzione. Ma non è meno accademia un ritorno sic et simpliciter al paradiso perduto della tonalità. E chiameremo epigono un compositore nato nel 1948, come Ambrosini, perché scrive la musica che da giovane ha imparato e voluto scrivere? Allora anche Richard Strauss è un epigono del romanticismo. Su questa strada non ne usciremo mai. Proprio negli anni ‘80, Armando Gentilucci coglie il senso della trasformazione operatasi nel corso del novecento, e non solo nel mondo della musica. Nel 1980 esce Oltre l’avanguardia. Un invito al molteplice, Fiesole, Edizioni Discanto. E’ il “globale” di cui oggi ormai si parla, anche a vanvera. L’Europa smette di essere il centro del mondo, e l’avanguardia era stata un fenomeno tipicamente europeo. Si potrebbe perfino dire parigino, con ramificazioni viennesi e berlinesi. Il punto di svolta è Debussy. Ma guarda caso Debussy è colpito dalla musica di un’isola asiatica. Emile Benvéniste scrive, negli appunti su Baudelaire, che la poesia mette in primo piano il linguaggio, che è il linguaggio stesso a mostrarsi come tale, nella poesia: la poesia non è ciò che apparentemente dice, ma è lo stesso dire. In maniera non troppo sorprendente un trattato indiano di poesia, il Dhvanyaloka, IX secolo, dice qualcosa di simile: che la poesia non è il detto, ma il non detto che sta sotto le parole, lo chiama “profumo del linguaggio”. Ecco: la poesia è proprio quell’indefinibile profumo. Nella musica, allora, sarà il suono, il suono in sé, il suono in quanto tale. La sua articolazione in modi, melodie, ritmi, tonalità sono epifenomeni della storia, la sua essenza si racchiude nella pura emissione, variabilissima, del suono. Un grande poeta, e musicista, e storico, e filologo spagnolo, Ramón Andrés, ha scritto nel 2008 un libro prezioso, El mundo en el oido (Il mondo nell’orecchio, pubblicato in traduzione italiana per Adelphi). I primi flauti, ricavati da ossa umane forate, risalgono a prima di 60.000 anni fa. Il suono, e quindi la musica, apparve alle prime civiltà umane come voce del mondo inconoscibile, e dunque come strumento di conoscenza proprio del mondo che ci è nascosto. Non andava lontano da questa intuizione Lucrezio quando dice, nel quinto canto del suo poema, De rerum natura, sulla natura delle cose, che linguaggio e musica nascono dal canto degli uccelli, dallo stormire delle foreste. Questo dato spazza via d’un colpo tutta l’ingombrante, fuorviante sovrastruttura romantica europea costruita da non più di due secoli che ci spiegherebbe la musica come “espressione del sentimento”, linguaggio dell’emozione. Sul suo potere di esprimere sentimenti, e così via, si sono fatti scorrere fiumi di vacue parole. Certo che la musica, il ritmo provocano emozioni, lo avevano capito benissimo i greci, che però non parlano mai di espressione emotiva, bensì di provocazione delle emozioni. L’emozione di venire a contatto con un mondo sconosciuto, conoscibile proprio attraverso il suono, attraverso l’emozione provocata dal suono, che è un ‘emozione della conoscenza e non del sentimento. Pitagora, o meglio i pitagorici, interpreteranno il suono come specchio uditivo del cosmo. Quest’idea arriva fino a Bach. E a Debussy: la musica comincia dove finisce il linguaggio, dice ciò che il linguaggio non sa più dire. Che non è il sentimento, ma la percezione della vita, del trascorrere della vita. Mélisande muore nel punto in cui una corona è posta sulla stanghetta divisoria delle battute. La morte è il silenzio. La pausa è ancora musica. Ecco perché il suono è percepito da talune culture come la voce dei morti che arriva a noi. Il silenzio della morte è spezzato da questa voce che lo attraversa. Tutto ciò per dire quanto complessa sia, nelle culture umane, la percezione del suono. La musica delle avanguardie sembra in qualche modo volere tornare a queste origini, scavalcare le emozioni, per restituirci un fenomeno udibile dell’inesplicabile. Il rigore delle architetture sonore vuole restituirci l’intelaiatura delle cose. Sono soffi, frulli d’ali, vocalizzi, melodie prosciugate – bastano due suoni, un intervallo, a fare una melodia,come sa chiunque abbia ascoltato almeno una volta una pagina di Webern. I suoni devono arrivarci, dunque, non come messaggio di chi sa quale emozione o pensiero, bensì come la superficie di qualcosa, di un mondo, che non può essere manifestato in altro modo. Il che, come ci avverte Gentilucci, non è l’unico modo di fare musica, ma uno tra tanti.
L’equivoco, l’errore, sia da parte degli avaguardisti sia da parte degli antiavanguardisti, non sta tanto in ciò che affermano, ma nel credere che la propria musica, quella che sostengono con le proprie affermazioni, sia l’unica possibile. In questa registrazione lo spettro sonoro è ristretto al suono di un flauto e di una chitarra. In qualche modo ci si può riconoscere la combinazione antica di lira o cetra o forminx e aulós, un flauto (poco importa che in realtà l’aulós assomigliasse più a un oboe che a un flauto). I timbri dei due strumenti si associano in maniera mirabile. L’astrazione delle architetture sonore, l’assottigliamento dello spessore armonico, l’evanescenza delle linee melodiche che spesso questa musica suggerisce, è splendidamente realizzata dall’incontro tra le corde pizzicate della chitarra e l’alito che alimenta il suono del flauto. Non si cerchi, ascoltando, d’inseguire la memoria di qualche forma musicale conosciuta, ma si assecondi il procedere delle linee musicali, il loro intrecciarsi, scontrarsi, combinarsi, assimilarsi. Di quale mondo restituiscano il suono lo si lasci apprendere dal semplice ascolto, magari finalmente si percepirà quanto pensiero si manifesti in ciò che potrebbe apparire puro riverbero uditivo. E non si dimentichi mai che anche il suono più moderno, del più moderno degli strumenti, racchiude in sé la storia di millenni, che un flauto, una chitarra non sono strumenti scoperti oggi, e il loro suono, chi sa, con altri strumenti, simili, ma diversamente configurati, collegava la vita quotidiana del suonatore, dell’ascoltatore, con una vita più segreta, la sua, forse, in ore cordis, o più probabilmente quella di cui non sappiamo e non sappiamo nemmeno se esista o se sia una nostra illusione, è comunque un respiro, un accordo, e noi lo sentiamo ancora vivo, ancora vero.
Dino Villatico
Fiano Romano, 22 agosto 2021

 

Carnis ore, cordis ore (2018) per flauto (e flauto basso) e chitarra
CLAUDIO AMBROSINI (1948)
“Verbum quod foris sonat signum est verbi quod intus lucet, cui magis verbi competit nomen: nam illud quod profertur carnis ore vox verbi est…” “La parola che risuona all’esterno è manifestazione di quella che riluce dentro, cui maggiormente spetta il nome di Verbo: perché ciò che porgiamo con la voce della carne è voce del verbo…”. Da queste parole di Sant’Agostino (De Trinitate, XV, 11.20) prende avvio la composizione del dittico Carnis ore, cordis ore, basato sull’idea di un doppio percorso tra interiorità e esteriorità. Da un lato, la dimensione sonora interiore che si manifesta all’ascolto attraverso la fisicità palese del suono e della voce (carnis ore, “la voce della carne”); dall’altro, l’ascolto che procede dal fuori al dentro, attraversando la soglia tra suono e silenzio, verso l’interiorità incorporea dell’anima (cordis ore, “la voce del cuore”). Scritto nel 2018 per il duo Lotti-Baldissera, Carnis ore, cordis ore testimonia dell’inventiva ricerca strumentale che è alla base dell’opera di Ambrosini.

Cinque pezzi (1975-76) per flauto e chitarra
CAMILLO TOGNI (1922-1993)
La nascita dei Cinque pezzi per flauto e chitarra di Camillo Togni, composti tra il 1975 e il 1976, è legata a una doppia suggestione: da un lato l’improvvisa scomparsa di Luigi Dallapiccola, avvenuta nel febbraio del 1975, dall’altro la lettura approfondita dei versi del poeta greco Anacreonte. Lo stesso compositore ha spiegato la genesi della composizione:
“Alla base dei miei Cinque pezzi sta un materiale seriale desunto dalle 18 battute iniziale dell’ultimo lavoro, abbozzato per voci e strumenti e rimasto incompiuto, di Dallapiccola; così come a ciascuno dei miei Cinque pezzi è preposta una citazione di Anacreonte, così nel titolo si trova un frammento della citazione prescelta. Il primo pezzo (Rondine garrula) per flauto solo è particolarmente caratterizzato dall’impiego dei suoni multipli del flauto; il secondo e il quarto, per flauto e chitarra, si stringono attorno al terzo – Plexis, cioè“intreccio”,per flauto solo che è un piccolo Eroticon, composto con i quarti di tono; il quinto ed ultimo pezzo (Hymnos, cioè “compianto”) è ancora affidato al flauto solo, che espone tutta l’ultima melodia vocale di Dallapiccola, isolandone le frasi con lievi ombreggiature di accompagnamento.”

Sic (1992) for piccolo, flute, alto flute and guitar
NICCOLÒ CASTIGLIONI (1932-1996)
I cinque piccoli brani che compongono Sic mettono in evidenza diversi rapporti – di timbro e di carattere – tra la chitarra e gli strumenti della famiglia del flauto: ottavino (1), flauto in Do (3, 4) e flauto in Sol (2, 5). Nel primo brano la melodia stridente dell’ottavino è accompagnata da un ampio accordo della chitarra che si ripete immutabile, ma soggetto a continue variazioni metriche; nel secondo e nel terzo i due strumenti intessono un dialogo, prima privo di contrasti, poi leggermente accentato. Nel quarto brano (“con fantasia”) i rapporti si invertono: la chitarra si staglia con ampie frasi melodiche, accompagnata nel flauto da lunghi suoni sostenuti; nell’ultimo, i due strumenti si rincorrono – con una precisione ritmica quasi beffarda – in un canone per moto contrario. Nella loro spoglia linearità, questi brani sono un perfetto esempio della scrittura che caratterizza le ultime opere di Niccolò Castiglioni, sospese tra l’ingenuità e l’ironia.

Filari (1991) for piccolo and guitar
CORRADO PASQUOTTI (1954)
Nelle battute iniziali di Filari – composto nel 1991 per il duo Lotti-Baldissera – ciò che subito si impone è la materialità della chitarra: il suono percussivo del legno, la risonanza delle sei corde. Prende anche forma l’idea di due strumenti destinati a muoversi in regioni diverse dello spazio acustico, a viaggiare su un doppio binario ritmico e timbrico. Nella chitarra, la verticalità degli arpeggi muta presto in favore di un continuum sonoro variamente stratificato. L’ottavino si sposta a blocchi: prima disegna una linea esitante nel registro medio-grave, poi si irrigidisce con impulsi staccati e veloci increspature nel più penetrante registro acuto. Verso la fine il tessuto si ammorbidisce nuovamente, ma solo per un breve momento: gli accordi secchi della chitarra recuperano le sonorità verticali di apertura e il brano si chiude, circolarmente, con un sottile effetto di vibrazione.

Méliès (1990) for flute and guitar, from “Le esequie della luna”
FRANCESCO PENNISI (1934-2000)
Concepito nel 1990, questo brano è stato successivamente inserito in una scena centrale dell’opera Le esequie della luna, composta da Pennisi nel 1991 su testo di Lucio Piccolo e altri autori. In questa scena, nella quale si immagina la caduta della luna in una sperduta contrada siciliana, è anche prevista la riproduzione del film muto Voyage dans la lune (1902) di Georges Méliès – da cui deriva il titolo del brano. A caratterizzare il discorso musicale è la ricerca di una costante fluidità tra i due strumenti, con frequenti effetti di fusione timbrica. La raffinata qualità e la trasparenza della scrittura di Pennisi emergono con chiarezza in queste pagine di sonorità quasi impalpabile, modulata appena da sottili gradazioni dinamiche tra il piano e il pianissimo.

Musica a due (1982) per flauto e chitarra
BRUNO BETTINELLI (1913-2004)
Agli inizi degli anni ’70 Bettinelli si accosta per la prima volta alla chitarra, strumento destinato a occupare un posto importante nella sua opera. Dedicata al duo Montrucchio-Preda, Musica a due riflette già dal titolo la concezione squisitamente dialogica che sottintende questo brano. Benché concepito in un unico movimento senza soluzione di continuità, il discorso musicale è articolato in cinque sezioni contrastanti: Andante, Più calmo, Allegro, Più calmo, Allegro brillante. A governare il dialogo tra i due strumenti è un contrappunto serrato ma nitido, leggermente più rilassato nelle due sezioni pari (Più calmo). La linea del flauto è caratterizzata da un minuzioso controllo dell’articolazione, dal singolo impulso alla cellula motivica, dal suono frullato all’ampio arco melodico. Nella pagina finale il clima armonico cambia improvvisamente, facendo emergere la ricca sonorità delle corde vuote.

Variazioni Op. 73 (1995) per flauto e chitarra
LUCA MOSCA (1956)
Dedicate al chitarrista Alfonso Baschiera, le Variazioni op. 73 furono composte a Venezia nel dicembre 1995 e riviste nel 1997. Sul modello della forma classica della variazione, ma senza il riferimento a un tema vero e proprio, il brano mette in sequenza una serie di pannelli nei quali lo stesso materiale musicale è presentato sotto diverse angolature e stili di scrittura. Attivo anche all’interno di ogni pannello, questo principio si riflette nella microvariazione di un numero ridotto di cellule motiviche, generando un gioco di prospettive in continua mutazione. Dominante nel flauto, la linea melodica è ora compressa in un piccolo spazio, ora spezzettata e dilatata, per perdersi progressivamente in una atmosfera sempre più notturna e sospesa.

Impromptu (1981) per flauto in Sol e chitarra
ROSARIO MIRIGLIANO (1950)
Il carattere improvvisativo di questo brano – dedicato a Goffredo Petrassi, di cui Mirigliano fu allievo – si evidenzia soprattutto nell’instabilità del disegno ritmico. Il discorso è costruito su un ridotto numero di gesti strumentali, sviluppati in ampi periodi di lunghezza variabile. Specie nella parte del flauto in Sol, dalla sonorità più scura e vellutata del flauto in Do, la componente timbrica è al centro dell’attenzione: dalla ricerca di sottili gradazioni di colore nelle note ribattute all’uso di particolari tecniche di emissione del suono, come il soffio intonato, il “pizzicato” di lingua e l’incrocio con la voce in piccoli intervalli cromatici o all’unisono. Effetti simili vengono anche ricercati nella chitarra, dove il gioco delle variazioni timbriche si alterna al disegno di brevi cellule risonanti.
a cura di
Francisco Rocca

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