Modest Mussorgsky
QUADRI DI UN’ESPOSIZIONE
1. Promenade I
2. Gnomo
3. Promenade II
4. Il Vecchio Castello
5. Promenade III
6. Tuileries
7. Bydlo
8. Promenade IV
9. Balletto dei pulcini nei loro gusci
10. Samuel Goldenberg e Schmuÿle
11. Promenade
12. Limoges, Il Mercato
13. Catacombe (Sepolcro romano) – Con i morti in una lingua morta
14. Baba Jaga, La capanna sulle zampe di gallina
15. La grande porta di Kiev
[Registrazione effettuatain EMA Vinci service – 50056 Fibbiana (Fi) – I]
Dmitri Shostakovic
CONCERTO PER PIANOFORTE E ORCHESTRA N.2 OP. 102
KLK Symphony Orchestra, direttore Ferdinando Nazzaro
16. Allegro
17. Andante
18. Allegro
[Registrazione Live Concert Hall della Lviv National Philarmonic (Ucraina) ]
Disegno del suono Giuseppe Scali
Fonico di sala, editing, mixing e mastering Riccardo Magnani
Grafica Giuseppe Scali e Gianni Bicchierini
Testi a cura di Piero Rattalino
Foto di copertina Gian Luca Liverani
Pianoforte Yamah di Lisi Massimo (Fornacette – Pisa)
Le circostanze che spinsero Mussorgski a comporre i Quadri di una esposizione sono molto note ma sono anche un po’ fuorvianti e sarà dunque opportuno riconsiderarle. Nel 1874 si aprì a S. Pietroburgo una mostra di circa quattrocento lavori dell’architetto, pittore, disegnatore, costumista Victor Hartmann, prematuramente scomparso. Mussorgski, che di Hartmann era stato amico, visitò la mostra e si concentrò su un numero limitato di opere che costituirono l’ossatura dei Quadri di una esposizione. La composizione, rapidamente ultimata, venne però pubblicata soltanto nel 1886, cinque anni dopo la morte dell’autore, a cura di Rimski-Korsakov e del critico Vladimir Stasov. Rimski-Korsakov, che apprezzava la genialità di Mussorgski ma che gli addebitava anche una certa imperizia tecnica, ritenne di dover introdurre nell’opera delle “correzioni”, e Stasov preparò delle note esplicative che orientavano il pubblico verso il bozzettismo piccolo borghese.
Rimski-Korsakov aveva dato la versione secondo lui corretta del linguaggio ma aveva lasciato intatta la strumentazione pianistica, una strumentazione lineare e scabra che non poteva interessare ai concertisti di pianoforte in anni nei quali imperava il floreale dell’Art Nouveau. A “correggere” la strumentazione provvide qualche anno più tardi il pianista inglese Harold Bauer, al quale va comunque riconosciuto il merito di aver fatto conoscere al pubblico il capolavoro di Mussorgski. La trascrizione per orchestra dei Quadri, preparata da Ravel nel 1922 dal testo di Rimski, ottenne un successo così largo da invogliare i pianisti a studiare il lavoro. Risalgono agli anni venti le esecuzioni di Cortot, Fischer, Erdman, Prokofiev, e in Italia, più tardi, di Luigi Dallapiccola. Mentre gli altri si valsero della vecchia edizione, Dallapiccola si basò sulla versione originale, uscita nel 1931. Dopo di allora tutti gli interpreti, con la sola eccezione di Horowitz, adottarono questa versione,… magari con qualche modesto ritocchino.
I Quadri di una esposizione sono un polittico al modo di Schumann ma con una rilevante novità, la Passeggiata. I pezzi sono dieci, divisi in due parti di sei e quattro rispettivamente. Quattro pezzi della prima parte e uno della seconda sono preceduti dalla Passeggiata, costruita sempre sullo stesso tema ma con espressione diversa a seconda della colorazione sentimentale del pezzo che segue. Nella seconda parte il tema della Passeggiata viene inserito in due pezzi, perdendo così la sua funzione di preparazione ma integrandosi perfettamente nel linguaggio.
L’apparenza del polittico è quella del realismo. Un visitatore della mostra – sicuramente lo stesso Mussorgski – arriva, si sofferma davanti a un quadro, lo ammira, poi passa a un altro quadro. Ma qui entra in gioco il primo elemento antirealistico: la Passeggiata non è una riflessione su ciò che è stato appena visto ma una preparazione a ciò che si vedrà, al quadro susseguente. Possiamo immaginare che il visitatore consulti il catalogo della mostra e che pregusti il piacere di vedere un quadro che gli viene magnificato, ma questa spiegazione è quanto mai arzigogolata. Che razza di passeggiata è poi mai la prima, e sono tutte le altre che la seguono? Come si rende in musica una passeggiata? Ma con una marcia, una marcia tranquilla in tempo moderato. La prima passeggiata è invece un coro con una voce solista. La voce solista canta qualcosa, il coro ripete. E allora la nostra fantasia comincia a pensare alla Piazza Rossa, al popolo che vi si affolla, a un capopopolo che canta le lodi del Piccolo Padre e al popolo che le ripete, le lodi. E il Piccolo Padre appare alla finestra del palazzo. Gnomus, dice Mussorgski. Gnomus: un nanerottolo deforme. Ma no! E’ lo zar, è Boris Godunov, che è nano perché piccolo è il suo animo, e che è deforme moralmente, non fisicamente. Se partendo da qui cominciamo a seguire la nostra fantasia, invece dei titoli di Mussorgski e delle didascalie di Stasov capiamo che i Quadri non sono iscrivibili nel realismo ma nel simbolismo.
La successiva Passeggiata introduce il Vecchio castello. Un castello provenzale, un trovatore che canta il suo canto d’amore. Ma, allora, perché la Passeggiata introduttiva, invece di essere erotica, è mistica? Perché il vecchio castello è un vecchio monastero e il trovatore è un monaco che nel chiuso della sua cella sta scrivendo la storia tragica del regno di Boris Godunov, l’usurpatore. Da qui in poi sarà facile per noi ripercorrere la storia dello zar Boris. Una storia diversa ma complementare a quella dell’opera che Mussorgski aveva ultimato da poco.
Questo tipo di complementarietà ha un nome, un nome dotto e perciò molto raro: paralipomeni. Forse dalle obliate memorie del liceo riemergeranno allora in noi i Paralipomeni della Batracomiomachia di Giacomo Leopardi. E ci diremo, soddisfatti, che il vero titolo dei Quadri di una esposizione sarebbe Paralipomeni del Boris Godunov.
Un moto affettivo aveva indotto Mussorgski a comporre un grande lavoro in memoria di un amico scomparso. Un moto affettivo induce Shostakovic a comporre il Concerto n. 2 op. 102, calcolato per mettere in luce la qualità di pianista del figlio Maxim. Maxim Shostakovic era studente di pianoforte e di direzione d’orchestra nel conservatorio di Mosca. Era un bel talento naturale, non era un genio come suo padre. Doveva suonare un concerto per il suo esame di diploma ma non avrebbe brillato di vivida luce se avesse scelto un grande pezzo di repertorio. Eseguendo un pezzo nuovo, e tutto calcolato, come dicevo, su di lui, lo scopo sarebbe stato più facilmente raggiunto. Shostakovic compose dunque il Concerto nell’inverno del 1957 e Maxim lo eseguì con successo il 10 maggio, giorno del suo diciannovesimo compleanno.
Il 12 febbraio Shostakovic aveva detto al compositore Denisov, in una lettera: “Compongo male. Ho finito un Concerto per pianoforte che non ha nessun pregio artistico”. Sorprendente! Ma dobbiamo rifletterci un momento. Shostakovic seguiva, per costrizione e per convinzione, i dettami del “realismo socialista”, e per lui ia musica doveva avere sempre un sostrato filosofico o politico, morale in senso lato. Il Concerto rappresentava invece una felice deviazione da questo schema. E Shostakovic, dopo essersi messo l’animo in pace, lo suonò lui stesso più volte e ne affidò a noi, attraverso il disco, la sua interpretazione.
Lo schema a cui Shostakovic fece riferimento è quello del “concerto militare”, molto in voga alla fine del Settecento. Primo movimento con baldanzosi ritmi militari (ma non guerreschi, bensì da gioiose grandi manovre, alla René Clair), secondo movimento di tenero colloquio amoroso tra il generale vincitore e la sua bella, terzo movimento come festa, con canti e danze. Questo assunto è realizzato da Shostakovic in modo perfetto e, anzi, nel finale viene umoristicamente inserito un notissimo esercizio tecnico tratto dal Pianista virtuoso di Charles Hanon, tradizionale testo di allenamento dei pianisti russi e non solo russi. Un gran tenero papà, il nostro Dmitri Dmitrievic!
Piero Rattalino
The circumstances that led Mussorgsky to compose Pictures at an Exhibition are very well known but also slightly misleading, and it is therefore appropriate to reconsider them.
In 1874 an exhibition featuring 400 works from the prematurely departed architect, painter, illustrator and costume designer Victor Hartmann opened in St Petersburg. Mussorgsky, who had been a friend of Hartmann’s, visited the exhibition and concentrated on a limited number of works, which became the core of Pictures at an Exhibition.
The composition, quickly completed, was only published in 1886, five years after the death of the author, edited by Rimsky-Korsakov and of the critic Vladimir Stasov.
Rimsky-Korsakov, who appreciated the genius of Mussorgsky but also attributed to him a certain amount of incompetence, decided to introduce a number of “corrections” to the work, while Stasov prepared a few explainatory notes of petty bourgeois rough draftism.
Rimsky-Korsakov had delivered what he believed to be the correct version of the language, but had left the pianistic instrumentation intact, a linear and rough instrumentation that could not be of interest to the concert pianists of the time, steeped in the flowery Art Nouveau style of that era.
It was British pianist Harold Bauer, years later, who “corrected” the instrumentation, but he should be given credit for introducing Mussorgsky’s masterpiece to the public.
The transcription for orchestra of Pictures at an Exhibition curated by Ravel in 1922 from Rimsky’s text, gained such a level of success that pianists began to study the work.
It was the 1920s that saw the performances by Cortor, Fischer, Erdman, Prokofiev, and later in Italy by Luigi Dallapiccola.
Whilst the others used the old version, Dallapiccola drew from the original version, which came out in 1931. After that, every interpreter with the sole exception of Horowitz adopted this version, though perhaps with a few modest tweaks.
Pictures at an Exhibition is a polyptych in the vein of Schumann, but with one relevant new addition: the Promenade. There are ten pieces, divided into two parts of six and four respectively. Four pieces of the first part and one of the second are preceded by the Promenade, always constructed on the same theme but with a different expression depending on the sentimental colouring of the piece that follows.
In the second part, the Promenade theme is inserted in two pieces, thus losing its preparatory role but perfectly integrating itself in the language.
The appearance of the polyptych is that of realism. A visitor of the exhibition – surely the very same Mussorgsky – arrives, stops to admire a painting, then moves on to another canvas. However it is here that the first element of anti-realism comes into play: the Promenade is not a reflection on what was just seen, but a preparation of what the following painting will be. We can imagine that the visitor is consulting the catalogue of the exhibition, pre-savouring the joy of seeing a painting that he will soon see in person, but this explanation appears convoluted. What kind of promenade would the first one be and all others that follow? How does one render a walk in music? The answer is with a march, a tranquil march with a moderate tempo. However the first walk is a choir featuring a solo voice. The voice sings something, the choir repeats it. Therefore our imagination takes us to the Red Square, to images of a crowd gathering, of a demagogue singing the praises of the Little Father, and the people repeating said praises. Then the Little Father appears at the window of the palace. Gnomus, says Mussorgsky. Gnomus, a deformed midget. But no! It is the zar, it is Boris Godunov, who is short as his soul is tiny, morally but not physically deformed.
If starting from here we follow our imagination, setting aside the titles of Mussorgsky and the captions of Stasov, we can understand how the Pictures do not fall under realism, but symbolism.
The following Promenade introduces the Old castle. A provencal castle, with a probadour that sings his song of love. Then why is the introductory Promenade, instead of being erotic, is a mystic one? Because the old castle is an old monastery and the troubadour is a monk who, away in his chamber, is writing the tragic story of the kingdom of Boris Godunov, the usurper. From this point onward, it will be easy for us to relive the story of Boris the zar. A different but complementary story to the opus recently completed by Mussorgsky.
This type of complementarity has a name, an erudite name, which is seldom used: paralipomena. Perhaps from our foggiest memories of high-school studies we will recall the Paralipomena of Batrachomyomachia by Giacomo Leopardi. And we could satisfyingly tell ourselves that the true title of Pictures at an Exhibition would be Paralipomena of Boris Godunov.
An emotional reason led Mussorgsky to compose a great work in memory of a friend he had lost. An emotional reason leads Shostakovich to compose Concert n.2 op. 102, designed to shine a light on his son Maxim’s prowess as a pianist. Maxim Shostakovich was a piano and orchestra director student at the Moscow conservatory. He was a natural talent, but not a genius such as his father. He had to give a concert for his final exam but wouldn’t have shon brightly had he selected a well-known repertoire piece.
By executing a new piece, meticulously measured around him, the goal would have been much easier to reach. Shostakovich therefore composed the Concert in the winter of 1957 and Maxim successfully executed it on May 10th, the day of his 19th birthday.
On February 12th Shostakovich wrote to the composer Denisov in a letter: “I compose badly. I’ve just finished a Concert for piano with no artistic merit”. Surprising, yes. But one has to reflect on this for a moment. Shostakovich followed, both by obligation and personal belief, the rules of “socialist realism”, and for him music always had to have a philosophical and political substrate, moral in a lateral sense. The Concert represented a successful deviation from this scheme. And Shostakovich, after making peace with this, played it himself several times, and left to us his own interpretation through the disc.
The scheme to which Shostakovich referenced was that of the “military concert”, very much in vogue at the end of the 1700s. A first movement with bold military rhythms (not martial though, more in the vein of great joyous manoeuvres, like René Clair), a second movement of soft loving dialogue between the victorious general and his beloved, a third movement as celebration, with songs and dance. This model is conveyed by Shostakovich perfectly, and in fact during the finale, he humorously inserted a very well known technical exercise taken from the virtuoso pianist Charles Hanon, a traditional exercise text for Russian pianists and non Russians too. A caring father he turned out to be, Dmitri Dmitrievic!
Piero Rattalino