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FRANZ SCHUBERT: TRIO OP. 99 E 100 – Trio Magritte – CD

Piano Trio No. 1 in B-Flat Major, Op. 99, D. 898
I. Allegro moderato
II. Andante un poco mosso
III. Scherzo. Allegro
IV. Rondò. Allegro vivace

Piano Trio No. 2 in E-Flat Major, Op. 100, D. 929
I. Allegro
II. Andante con moto
III. Scherzo. Allegro moderato
IV. Allegro moderato


Francesco De Angelis violino
RelJa Lukic violoncello
Emanuela Piemonti pianoforte

I Trii op. 99 e 100, una sorta di Giano bifronte

Gli ultimi due anni di vita e di attività compositiva di Franz Schubert rappresentano un mistero, nella storia dell’arte e della creatività umana: comporre un tal numero di capolavori di vasta stesura in un tempo così ristretto, per di più segnato dalla malattia che gli sarà fatale, è pressoché inconcepibile. Si tratta di un comporre in tempo reale, di un dialogo naturale e continuo con la carta da musica apparentemente in contrasto con gli abissi espressivi raggiunti, con le nuove vie aperte.

È anche emozionante osservare che si tratta per lo più dei diciotto mesi che intercorrono tra la morte di Beethoven e la propria, quasi come se la scomparsa del grande nume, considerato inavvicinabile dal timido Schubert pur vivendo sotto lo stesso cielo viennese, avesse avuto su di lui un effetto inconsciamente liberatorio. Ed infatti, guarda caso, aumenta l’attenzione da lui rivolta alle forme e alle strumentazioni classiche, la sinfonia, il quartetto e il quintetto d’archi e infine quel trio con pianoforte cui finora in pratica non si era occupato, mentre di fianco a lui Beethoven aveva dedicato una grande attenzione a tale organico, traghettandolo dal ‘700 haydniano ad un’800 già intensamente romantico.

Le vie espressive e strutturali che Schubert sceglierà saranno però del tutto differenti da quelle del Compositore di Bonn. Beethoven è profondamente tedesco, anche se vive tutta la sua vita musicale a Vienna, possiede una severità tutta luterana che guarda con profonda antipatia alle leggerezze viennesi: egli è concentrato sulle trasformazioni motiviche, sulla forma come germinazione continua, le sue radici sono in Bach e dai suoi semi nasceranno Schumann e Brahms.

Schubert, viceversa, è profondamente viennese, le sue radici sono in Haydn e Mozart quanto nel Ländler e nel canto popolare accompagnato che scorre nelle sue vene divenendo Lied: ma quei mondi, quello della nascente classicità da un lato e della musica popolare dall’altro, sono da lui nel contempo sentiti come in declino o addirittura perduti, e rivivono nella dimensione di una struggente nostalgia. Dai suoi semi nascerà infatti Gustav Mahler, il cantore estremo della morte di un intero mondo, quello austro-ungarico.

Prima del 1827, cioè vivente Beethoven, Schubert ha composto per Trio con pianoforte solo un breve Allegro, definito poi Sonata sebbene fosse in un unico movimento: ma siamo nel 1812, l’Autore ha solo quindici anni e il brano non è particolarmente significativo.

Improvvisamente, invece, presumibilmente dall’estate al dicembre del 1827 (Beethoven era morto il 26 marzo), nascono i due grandi Trii, veri caposaldi della letteratura per questo organico, al pari dei più importanti di Beethoven e dei successivi di Schumann, Brahms e Ravel.

I due trii, pur composti in periodi così ravvicinati, sono totalmente differenti tra loro, si potrebbe dire ostentatamente differenti, a cominciare dalla loro genesi e dalla loro vita immediata, prima ancora che per il loro carattere e la loro struttura.

Della nascita dell’op.100 si sa tutto, dell’op.99 poco o nulla, nemmeno le date esatte: solo presumibilmente si dice “estate 1827”, ma non vi sono certezze, poiché è persino perduto il manoscritto. Per meglio dire, vi sono ben tre datazioni presunte, una arretrata al 1826, una, appunto, indicata come estate 1827, mentre la terza ritiene la composizione dell’op.99 addirittura successiva a quella dell’op.100, e dice “primavera 1828”. Scarterei quest’ultima, sia per motivi stilistici (l’op.100 appare decisamente più complessa, più ricca e problematica, sembra davvero vivere “sulle spalle” dell’op.99), sia perché ne risulta un’esecuzione in forma privata il 28 gennaio 1828 che invaliderebbe quella teoria. Personalmente preferisco pensare all’estate 1827, come data di composizione, in quanto immediatamente successiva alla morte di Beethoven.

L’op.100, viceversa, ha una genesi ben documentata e viene immediatamente accolta con favore nel mondo musicale viennese, cosa mai successa in vita per altri brani schubertiani di ampie proporzioni: iniziato nel novembre 1827, il Trio è [incredibilmente] completato in meno di un mese ed eseguito subito, il 26 dicembre, in sede importante (per il Musikverein di Vienna) e da musicisti di gran nome (gli archi erano membri del Quartetto Schuppanzigh, interprete regolare dei Quartetti beethoveniani). Non solo: il Trio ebbe anche tanto successo da essere rieseguito poco dopo (caso unico, per un’opera importante, nella vita di Schubert) e in circostanza particolarmente simbolica: durante l’unico, grande concerto monografico che Schubert ebbe in vita sua, organizzato dalla Società degli Amici della Musica il 26 marzo 1828, in occasione del primo anniversario della morte di Beethoven. Si trattava di un simbolico e inatteso passaggio di testimone, reso purtroppo vano dalla morte di Schubert stesso, il 13 novembre dello stesso anno.

A completare il quadro di questo successo, l’op.100 venne immediatamente pubblicata da un importante editore, Probst di Lipsia, mentre per l’op.99 bisognerà attendere fino al 1836.

Proprio in occasione di quest’ultima pubblicazione, il ventiseienne Robert Schumann, in veste di appassionato e lucidissimo critico musicale, scrisse un articolo di comparazione tra i due Trii, basato proprio sulla loro profonda differenza, che non possiamo non citare qui, almeno in parte:

Uno sguardo al Trio op.99, e tutte le angosce della nostra condizione umana scompaiono, e tutto il mondo è di nuovo pieno di freschezza e di luce. Eppure, circa dieci anni fa, un altro Trio di Schubert era già apparso come cometa nel cielo musicale. Era la sua centesima opera; poco dopo, nel novembre 1828, egli moriva. (…) I due lavori sono essenzialmente diversi. Il primo movimento, che nell’op.100 vibra di un furore represso e di una appassionata nostalgia, è, nell’op.99, verginale, pieno di grazia, di intimità; l’Adagio, là percorso da un sospiro che tradisce alla fine un’angoscia profonda, ha nel secondo [op.99] la qualità visionaria di un sogno di beatitudine e il vivo palpito di un’emozione squisitamente umana. Gli Scherzi sono invece molto simili; ma trovo superiore quello dell’op.99. Tra gli ultimi due movimenti non tento nemmeno di fare una scelta. Riassumendo, mentre il Trio op.100 è attivo, virile, drammatico, il Trio op.99 è passivo, femminile, lirico (…)”.

Al di là del linguaggio romantico ai limiti dell’enfasi, non si può che essere d’accordo con ogni parola di Schumann. Tra i tre aggettivi attribuiti a ciascun Trio, mi concentrerei comunque sulla drammaticità dell’op.100 e sul lirismo dell’op.99, senza scivolare nella virilità e nella femminilità, nell’attività e nella passività.

Vediamo ora di seguire la stessa linea di Schumann, procedendo parallelamente con i due Trii, movimento per movimento.

Il primo tempo dell’op.99 è una forma-sonata nitida, trasparente: all’energico primo tema (energico, ma non drammatico, non ci si faccia ingannare dal ritmo puntato un poco marziale del basso), si contrappone un secondo tema debitamente in tono di dominante e altrettanto debitamente costituito da una melodia degli archi accompagnata dal pianoforte, una melodia semplice e leggera, che non indulge al lirismo. Ma è sufficiente un particolare ad eliminare ogni rischio di accademismo: l’evoluzione del primo tema è ad un certo punto decisamente modulante, ma non conduce, non “tende” al Fa maggiore del secondo tema, bensì conduce ad un La maggiore la cui tonica, come per incanto si trasforma nella prima nota melodica in Fa maggiore del secondo tema: in questo modo il passaggio dal tono di tonica a quello di dominante acquista per l’ascoltatore uno stupore nuovo, l’apertura di una porta armonica imprevista. La stessa osservazione va fatta sul modo in cui l’ampio sviluppo (circa 100 battute) riconduce alla ripresa: circa 25 battute prima, il primo tema ritorna già ad aleggiare in toni differenti, Sol bemolle, Re bemolle, in modo che quando si approda al Si bemolle maggiore della vera ripresa tutto avviene senza fratture, senza segnali, senza tensioni.

Un’ultima osservazione riguarda le dinamiche: se è vero che nello sviluppo si toccano i tipici fortissimi dei culmini schubertiani, i punti salienti, l’arrivo al secondo tema, la fine dell’esposizione, la stessa fine del movimento se si eccettuano i due accordi finali, sono tutti in punta di piedi, tra piano e pianissimo, e ciò dà in pieno l’immagine di un primo tempo che vuole scorrere semplicemente, senza imporsi.

Ben diverso il primo movimento del Trio op.100. Innanzitutto le sue proporzioni si ampliano fino a raggiungere quelle della grande Sonata op.106 di Beethoven, o della stessa di poco successiva ultima Sonata pianistica di Schubert, in Si bemolle maggiore: 633 battute, circa un quarto d’ora di durata, una volta e mezza quella del I tempo dell’op.99.

Si parlava di drammaticità: prendiamo in esame la stessa cellula iniziale. Un unisono perentorio dei tre strumenti che precipita nel registro con valori sempre più corti, come una spirale che si avvita su di sé e cade nel silenzio, un continuo alternarsi di brevi frammenti e di pause, cercando più volte di ritrovarsi, fino a partire, finalmente. Ma subito dopo ci si allontana fortemente dal tono base di Mi bemolle, andando a Sol bemolle a Re bemolle e cadendo poi sulla cellula tematica che più si staglia nella nostra memoria, quella che tutti vogliamo considerare secondo tema, ma che si trova nel tono lontanissimo di Si minore ed è dotata di una totale instabilità tonale, andando a Sol maggiore, a Sol minore e così via. É questa la seconda area tematica? Chissà. E la sua dolcezza e il suo pianissimo cercano invano di farci dimenticare che essa è costituita da un’unica, ossessiva cellula ritmica, una semiminima e quattro crome, incessante e ipnotica.

Quando finalmente a battuta 116 si giunge con stabilità nel tono di dominante, e noi pensiamo sia giunta l’ora di un vero secondo tema, ecco che la cellula base, la nota di volta inferiore, si rivela vistosamente “figlia” della prima area tematica, cioè della battuta 16 del violoncello, e ciò accentua la vertigine delle mille possibili interpretazioni formali. E infine, quando dopo ben 140 battute il clima si distende in quello che ad orecchio sarebbe un vero secondo tema, ecco che ci accorgiamo che si tratta ancora della stessa nota di volta inferiore rallentata. E siamo per di più in coda della lunga Esposizione. Quasi a scusarsi del ritardo con cui ha obbedito ai tradizionali clima e tonalità di un secondo tema, Schubert rende quest’ultima cellula, giunta così tardi, la protagonista ossessiva dell’immenso sviluppo. Penso che tutto ciò basti a mostrare l’enorme differenza di intenzione compositiva tra i due primi movimenti, e l’inquietudine tematica e strutturale del secondo trio.

Il divario tra op.99 e op.100 tocca poi il suo culmine nei due movimenti lenti, che, pur nel loro opposto clima espressivo, costituiscono in entrambi i casi il cuore e l’apice dei due brani, toccando come poche altre volte le regioni dell’infinito.

Dal cullante sei ottavi introduttivo del pianoforte nasce, nell’Andante poco mosso dell’op.99, la cellula lenta, isocrona e sommessa di un acuto violoncello: pochi intervalli che hanno radici lunghe, nella storia della musica. Il loro profilo assomiglia a quello del nome B.A.C.H., a quello di una delle più intense fughe del Clavicembalo ben temperato (la IV del I Libro, in do# minore), a quella del più drammatico Lied di Schubert, Der Doppelgänger, ma qui il suo modo maggiore e la dolcezza del pianoforte esorcizzano ogni drammaticità e ci portano in un attimo nella regione del sogno, dalla quale non usciremo più, per tutto un movimento che vorremmo non finisse mai.

Anche l’Andante con moto dell’op.100 inizia con un canto di violoncello, ma quale differenza, tra i due temi. Il ritmo cullante del pianoforte dell’op.99 lascia il posto ad un ritmo di marcia sotterraneo, cupo, incombente, con quell’accento asimmetrico posto sull’ultima croma della battuta di due quarti, il ritmo di un soldato che torna dalla guerra con il passo pieno di ricordi. E il canto di violoncello, un lungo soliloquio che si richiude continuamente su se stesso, proviene da una melodia popolare svedese dal titolo significativo di “Vedi, il sole declina” ascoltata a Vienna in un concerto privato del tenore Isak Berg proprio durante la composizione del Trio: un caso impressionante di subitanea reazione a una suggestione musicale esterna. Lo sviluppo di tale tema raggiungerà culmini violenti, veri gridi, proporzionali all’angoscia soffocata di cui Schumann parla.

I due Scherzi, piuttosto simili tra loro ed anche, ad esempio, a quello della Sonata D.960, prendono tuttavia un colore ben differente a causa della diversa funzione espressiva che assumono, uscendo da due secondi movimenti così opposti: il risveglio da un sogno quello dell’op.99 e l’uscita sorridente dall’oscurità profonda quello dell’op.100.

Le differenze tornano a spalancarsi nei due quarti movimenti.

Il Rondò-Allegro vivace dell’op.99 non nasconde la sua innocente semplicità aprendosi con una melodia quasi “fischiettante”. Ma a battuta 52 una sorta di scampanio improvvisamente forte e per ottave diventa il segnale molte volte ricorrente che innesca successivi episodi, quasi aprendo sipari pieni di ritorni, ma anche di variazioni e di invenzioni.

Un’osservazione degna di nota, un vero indizio: proprio questa cellula, comparendo a battuta 152 in forma più ampia e nel pianissimo, come un’eco lontana, viene ad assomigliare in modo sorprendente e quasi totale all’attacco forte e perentorio del I movimento dell’op.100. Che sia questa la prova definitiva del fatto che l’op.99 è stata scritta pochi mesi prima? E non sarà che la costola di Adamo sia stata, più o meno consapevolmente, questa cellula?

Il quarto movimento dell’op.100 sembra iniziare con un carattere assai simile, cioè con una cellula semplicissima e scherzosa; ma non ci si faccia ingannare. Quanto prima nascerà un secondo elemento, una sorta di organetto isocrono e veloce che passa successivamente a tutti e tre gli strumenti (anche il cantore misterioso che il Wanderer incontra nell’ultimo, impressionante Lied di Winterreise ha in mano un organetto, e forse quel cantore è la morte), un organetto che apre una serie infinita di sviluppi e di ritorni.

Questo quarto movimento diventa così ampio da sembrare non finir mai, come se Schubert non sapesse o non volesse uscirne, fino ad accettare la proposta di un possibile taglio fattagli dall’editore.

E il finale, definitivo ritorno del canto del violoncello del II movimento (inaspettato, anche se aveva già fatto capolino nel corso di uno sviluppo), un ritorno formalmente del tutto anomalo all’epoca di Schubert, viene ad essere l’”uscita per la tangente” dalle infinite ripetizioni in cui Schubert sembrava essersi perso, nega definitivamente la leggerezza di un Rondò e diviene la “chiusura del cerchio”, il senso profondo e drammatico di uno dei più grandi capolavori della musica.

Alessandro Solbiati



Dall’incontro di tre musicisti nel pieno dell’attività solistica e cameristica nasce il Trio Magritte

Francesco De Angelis è violino solista e Konzertmeister del Teatro alla Scala e della Filarmonica della Scala di Milano fin dal 1998 vincendo il concorso internazionale con presidente di giuria Riccardo Muti.
Ha collaborato con i più prestigiosi Direttori d’orchestra quali Sawallisch, Solti, Prêtre, Giulini, Chung,Tate, Giulini, Maazel.
Nel 2003 è stato invitato personalmente da Valery Gergiev nella” World Orchestra for Peace”. Ha suonato nelle più prestigiose sale del mondo con artisti quali Kantorow, Varga, Barenboim, Dindo, Quarta, Muti e i Solisti dei Wiener Philarmoniker.
E’ docente a Sion nell’ Académie de Musique Tibor Varga. Tiene masterclass in Francia, Italia e Giappone. Suona un Ansaldo Poggi di sua proprietà.

Relja Lukic, diplomatosi presso il Conservatorio S. Mokranjac di Belgrado, si trasferisce in Italia grazie ad una borsa di studio ottenuta per meriti artistici dal Governo della Repubblica di Serbia per proseguire i propri studi presso il Conservatorio G.Verdi di Milano con R. Filippini.
Vincitore del Concorso Internazionale di Violoncello di Murcia, è stato premiato ai concorsi internazionali di Violoncello di Barcelona, “M.D.Jost” di Lausanne, “G.B.Viotti” di Vercelli e “R.Caruana” di Milano.
Membro del Divertimento Ensemble con il quale effettua numerose tournées in Francia, Spagna, USA, Grecia, Messico e Giappone, si è esibito come solista con le Orchestre della RTV di Belgrado, RAI, Angelicum, Guido Cantelli di Milano.
Attualmente è primo violoncello dell’Orchestra Teatro Regio di Torino. Suona un Gianfrancesco Celoniato del 1732 della fondazione.

Emanuela Piemonti è stata per venticinque anni la pianista del Trio Matisse con il quale, dopo aver vinto il Premio Vittorio Gui, ha sostenuto circa cinquecento concerti nelle più importanti stagioni e sale italiane e ha effettuato tournées in Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Israele, Australia, Cina.
Ha registrato per la Rai l’integrale dei Trii di Beethoven, inciso per le etichette Aura,Limenmusic, Stradivarius ed EMA Vinci classica. In prima assoluta ha eseguito composizioni dedicate al Trio da Mauricio Kagel, Luis de Pablo, Luca Francesconi ed Alessandro Solbiati. Ha collaborato inoltre con interpreti di fama internazionale quali Hermann Baumann, Franco Maggio Ormezowski, John Mackeney, Enrico Dindo, Mario Hossen, Michèle Scharapan.
Nel 2013 incide per la casa discografica Naxos i due Tripli di Casella e Ghedini, disco che vinse il premio ” Choc de Classica” per la rivista francese Classica Magazine.
E’ titolare della cattedra di musica da camera presso il Conservatorio “G.Verdi” di Milano. Insegna nei corsi estivi della Orpheus Academy di Vienna.

© EMA Vinci classica 21.11.2018


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