Leggenda, Opera di Alessandro Solbiati

Leggenda musica di Alessandro Solbiati – libretto di Alessandro Solbiati – Opera in un Atto – artista principale: Alessandro Solbiati
Direttore Gianandrea Noseda – Regia dell’Opera Stefano Poda

Personaggi e interpreti:

Tenore Mark Milhofer (Ivan), Soprano Alda Caiello (Alëša), Baritono Urban Malmberg (Il Grande Inquisitore), Soprano Laura Catrani (La Madre) Basso Gianluca Buratto (Spirito del Non Essere). Due attori impersoneranno il silenzioso Cristo, nel carcere e nel deserto

Organico Orchestra – Ensemble vocale e Coro del Teatro Regio di Torino

Regia video Francesco Leprino

«Un’opera di densa spiritualità per riflettere sull’umanità e la società di oggi a partire da un romanzo del secondo Ottocento che si rivela, come spesso accade, molto attuale. Tre livelli si susseguono ed intrecciano nell’opera, tre livelli temporali (incarnati in tre successive coppie di personaggi) che divengono anche spaziali, disegnando via via la profondità di campo della scena: il tempo presente di Ivan e Alëša sul proscenio, la Siviglia cinquecentesca, piazza e carcere, dell’Inquisitore e del “presunto Cristo” al centro del palco, il deserto delle tentazioni evangeliche dello Spirito del Non Essere e di Cristo sul fondo. Il simbolico e misterioso ritorno di Gesù sulla terra evidenzia troppo la differenza stridente tra il suo modello spirituale e quello cinicamente assunto, nel Suo nome, dal potere, per non renderlo corpo estraneo da eliminare nuovamente. L’Inquisitore è l’incarnazione esatta del potere nella sua forma più inquietante e purtroppo più contemporanea. (Alessandro Solbiati)»

Produzione  Prima rappresentazione assoluta dell’opera “Leggenda” di Alessandro Solbiati tratta da La leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij in scena il 20, 24, 27 settembre 2011 al Teatro Carignano di Torino nell’ambito della stagione lirica del Teatro Regio e in collaborazione con il Festival MITO Settembre Musica.

Masterizzazione: EMA Vinci service

Direttore del Coro: Claudio Fenoglio

Una Produzione del Teatro Regio di Torino

Data di Uscita 07.02.2018

Formato Principale DVD Altri Formati Album Digitale

2018 EMA Vinci records 40066 © EMA VinciEtichetta EMA Vinci contemporanea

Linea Linea 4 • Genere – Contemporanea

WORLD PREMIERE RECORDING


Alessandro Solbiati ha compiuto gli studi presso il conservatorio “G. Verdi” di Milano dove si è diplomato in pianoforte e in composizione; si è in seguito perfezionato presso l’Accademia Chigiana di Siena sotto la guida di Franco Donatoni. Ha vinto numerosi premi in concorsi nazionali ed internazionali, e ricevuto commissioni da istituzioni quali il Teatro alla Scala di Milano, la RAI, il Teatro Comunale di Bologna, Radio France, il Mozarteum di Salisburgo, la Fondazione Gubelkian di Lisbona, il South Bank Center di Londra, ed altri.  Sue musiche sono state eseguite in importanti festival in Italia e all’estero (Australia, Austria, Croazia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Regno Unito, Paesi Bassi, Portogallo, Russia, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, e molti altri), oltre che registrate e trasmesse da molte emittenti radiofoniche in Europa e America; esse sono edite dalle Edizioni Suvini Zerboni (Milano).  È docente di composizione presso il conservatorio G. Verdi di Milano, in precedenza ha tenuto la stessa carica al conservatorio G.B. Martini di Bologna; ha inoltre tenuto corsi di perfezionamento a Parigi (Conservatoire National Superieur de Musique), Avignone (Centre Acanthes), San Marino e Milano (Scuola Civica).


TEATRO REGIO DI TORINO, dirige GIANANDREA NOSEDA

 


Più volte, negli ultimi tempi, mi è stato chiesto come mai, dopo aver scritto per trent’anni molta musica strumentale e vocale affermando ripetutamente e con convinzione che non mi sarei mai occupato di teatro musicale, nel giro di tre anni io abbia composto non una, ma due opere, la prima, Il carro e i canti, commissione del Teatro Verdi di Trieste per la stagione 2008-2009 e la seconda, questa mia amatissima Leggenda, commissione del Teatro Regio di Torino per la stagione 2010-2011.
Vi sono due ragioni, una strettamente musicale ed una extra-musicale.
Ma prima di esporre tali ragioni, va risistemato l’ordine stesso delle due opere, non per pura esattezza cronologica, ma proprio in relazione alle due ragioni di cui sopra: la d ata della loro messa in scena è infatti l’inverso di quella di ideazione.
Il progetto per un’opera sulla Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij era in me da molti anni, ma solo nel luglio 2007 ebbi il coraggio di proporlo, trovando nell’amico Gianandrea Noseda un’accoglienza immediatamente calorosa di cui lo ringrazierò per sempre, nel corso di un’indimenticabile telefonata fatta da un taxi. Ricordo che il mio primo pensiero, riappendendo, fu: ma è sempre così facile proporre un’opera in un teatro, e non in un teatro qualsiasi ma al Regio di Torino? In realtà la risposta è no, non è sempre così facile. Bisogna trovare sulla propria strada un musicista generoso e appassionato come Gianandrea, quantomeno.
Ero nel pieno delle mie riflessioni dostoevskijane quando, a fine gennaio 2008, al termine di una bella esecuzione di un mio brano sinfonico da parte dell’Orchestra del Teatro di Trieste, il Direttore Artistico mi propose un po’ a bruciapelo la commissione di un’opera “da mezza serata”, cioè della durata di 50’ circa, dandomi però tempi ristrettissimi: dalla prima proposta di quella sera alla messa in scena dell’opera, passarono infatti solo quattordici mesi.
Ringrazierò sempre anche quell’occasione offertami: Il carro e i canti (non a caso basata anch’essa, per mia scelta, su un’opera letteraria russa, Il festino in tempo di peste, di Alexander Puskin) ha avuto una splendida accoglienza, a Trieste, ma soprattutto, per quanto mi riguarda, ha permesso a me, compositore abbastanza esperto ma del tutto esordiente in campo teatrale, di sperimentare e verificare pregi e difetti di una vasta serie di modalità sceniche, narrative, vocali e orchestrali. Il carro e i canti ha costituito un insuperabile terreno di prova in vista della più ampia e complessa opera dostoevskijana.
Al termine delle esecuzioni triestine, mi buttai a capofitto nella costruzione del testo per Leggenda: esso, nella sua impalcatura fondamentale, fu pronto a fine estate del 2009.
La stesura della partitura incominciò solo molto più tardi, a metà maggio 2010, ed è terminata, dopo un lavoro che ha meravigliosamente coinvolto ogni mia energia e ogni ora del giorno, il 22 marzo 2011.

Ritorno ora alle due ragioni di cui parlavo.
Dapprima, la ragione musicale.
Fin dai miei esordi compositivi, alla fine degli anni ‘70, e poi via via più consapevolmente, ho perseguito una certa chiarezza musicale, la nettezza del primo impatto sonoro, cioè l’evidenza della figura musicale e dei suoi percorsi di evoluzione, sviluppo, trasformazione.
La figura è la natura stessa, il carattere, la fisionomia di un evento sonoro, ciò che ce lo rende in qualche modo decodificabile ed anche descrivibile, in un certo senso “comprensibile”. Questo desiderio di evidenza non doveva però mai rinunciare ad un’altra componente da me sentita come essenziale, cioè la complessità. Ho sempre pensato che la migliore musica europea, in ogni epoca, sia quella che trova un punto di equilibrio tra chiarezza e complessità, e che permette quindi differenti livelli di ascolto. Si pensi al mio amato Brahms: ci si può “accontentare” dell’emozione proveniente dalla pura bellezza dei temi o si può andare più a fondo e gustare la complessità delle sue strutture compositive, che lasciano però inalterato il primo livello di fruizione.
Questa mia esigenza di “evidenza complessa” ha sempre più coinvolto l’intera forma musicale: ma una musica il cui gesto sia ben identificabile nel suo immediato apparire quanto nel suo successivo evolvere è di fatto una musica in qualche modo “narrativa”, sia pur astrattamente.
La “narratività” della musica, la sua possibilità di dipanare i miei percorsi immaginativi in modo riconoscibile e memorizzabile, ma mai totalmente esplicito, è divenuta sempre più importante, per me, il mio vero centro d’interesse. Un certo numero di miei lavori, tutti composti, almeno in versione definitiva, tra il 2005 e il 2010, mi sembrano aver raggiunto il livello da me desiderato di “narratività complessa”: parlo di brani per ensemble come Sinfonia da camera o Vivente e di brani orchestrali come Sinfonia, Sinfonia seconda e Sinfonia terza.
Ma a questo punto non ho potuto esimermi da una riflessione: se ritenevo di aver raggiunto un buon livello di equilibrio tra chiarezza e complessità, nel singolo istante e nella forma, così da saper astrattamente “narrare” i percorsi delle mie energie interiori, perché non avrei dovuto mettere tale capacità al servizio di una narratività oggettivata, proiettata su una scena?
Naturalmente era possibile anche chiedersi perché avrei dovuto per forza farlo, data una certa mia diffidenza verso il teatro musicale, percepito come meno “assoluto” della pura espressione musicale.
Ma qui sovviene la seconda ragione, quella extra-musicale.
Raggiunti e superati i miei cinquant’anni ho sentito l’esigenza di dire con forza una mia Weltanschaung, di mettere in scena il mio punto di vista fortemente critico contro la sempre più forte spinta della società occidentale verso la superficialità, l’esteriorità colorata e stupida, verso l’aggiramento delle domande profonde e vere dell’esistenza, preludio, tutto questo, all’obnubilamento delle coscienze e al loro controllo.
Più di quindici anni fa nel mio più lungo e composito lavoro sinfonico-vocale (X Elegia) ho utilizzato l’ultima delle Duineser Elegien in cui Rilke rappresenta la società attuale (del 1922…) come un grande luna park le cui luci e i cui rumori anestetizzano ogni domanda esistenziale.
La prima scelta da me fatta di un testo teatrale, quello di Puskin, vede in scena in un unico luogo chiuso cinque personaggi che rimuovono festeggiando il pericolo incombente di un’epidemia di peste, metafora trasparente di un uomo occidentale che cerca sempre più di neutralizzare, di escludere da sè di-vertendosi ogni dolorosa coscienza della condizione umana, quella “cosmica” quanto quella terribilmente reale dei miliardi di affamati ed indigenti intorno a noi.
In questo senso, con la Leggenda del Grande Inquisitore si tocca una vetta di letteratura e significato difficilmente superabile e piena di differenti implicazioni. Io mi sono concentrato su due di queste, tralasciandone altre, quale ad esempio l’interrogativo sulla ragione della sofferenza umana posto nel “levare” della Leggenda e che apre la via alla riflessione sulla libertà dell’uomo.

L’Inquisitore è l’incarnazione esatta del potere nella sua forma più inquietante e purtroppo più contemporanea. Non cioè il potere vistoso ed esplicito, quello delle dittature di ogni epoca che, per dolorose ed infami che siano, hanno spesso l’indesiderato (per loro) effetto collaterale di suscitare una profonda coscienza di rivolta, bensì il potere che più sottilmente irretisce ed annulla le coscienze e che tocca il suo capolavoro nel far credere che l’appiattimento del pensiero sia il bene dell’uomo (noi li convinceremo che son solo poveri bimbi, e che la felicità infantile è la più dolce, dice l’Inquisitore nel suo monologo). Da tale potere è molto più difficile liberarsi perché confonde la nozione stessa di libertà, annullando ogni consapevolezza: come non pensare al sottile potere mediatico in cui siamo costantemente immersi in ogni attimo e per ogni aspetto della nostra esistenza, così abile nell’anestetizzare ogni profonda tensione?
Ecco perché ritengo che un’unica linea colleghi le mie tre successive scelte della X Elegia Duinese di Rilke, del Festino in tempo di peste di Puskin e della Leggenda dostoevskijana.
Ma a differenza che nelle altre due qui esiste un’invincibile, commovente alternativa, e non è necessario essere credenti per rimanerne emozionati: il silenzioso abbraccio finale del “presunto Cristo incarcerato” all’Inquisitore, cioè a colui che lo ha appena nuovamente condannato a morte in quanto reo di aver innalzato l’uomo alla dignità suprema della libertà, cioè la contrapposizione del valore supremo, invincibile e indiscutibile dell’Amore all’agghiacciante ed amaro cinismo dell’Inquisitore, quell’abbraccio è una risposta definitiva e suggella anche in me il percorso che mi ha condotto in quasi vent’anni da X Elegia a Il carro e i canti e infine a Leggenda.


IL DUBBIO CHE SI FA TEATRO
DI GUIDO SALVETTI

In più occasioni Alessandro Solbiati ha espresso l’appassionata intenzione di comunicare mediante la sua musica. Quanto basti per comprendere l’approdo a un teatro che dia visibilità a riflessioni morali particolarmente impegnative: nel 2009 con Il carro e i canti dal Festino in tempo di peste di Aleksandr Puškin e, oggi, con Leggenda.
La scelta di grandi scrittori russi dell’Ottocento – Puškin e Dostoevskij – come fonti autorevoli dei propri libretti, ci dice i modi e l’ambito di quest’intenzione: i modi sono quelli del realismo russo, inteso a scavare nel proprio passato recente e nel proprio presente alla ricerca di una luce verso il mistero del futuro; l’ambito è dato dalle domande fondamentali sul bene e il male, sulla felicità e il dolore, sul potere e la libertà.
Queste domande, di per sé filosofiche, possono avere una deriva religiosa se si rinuncia a una risposta attuale e la si demanda a una proiezione lontana, prossima all’infinito. Solo in questo senso si può azzardare che al fondo di queste opere di Solbiati ci siano tematiche religiose. E il fatto che Cristo, protagonista di Leggenda, sia personaggio muto, rappresentato costantemente dall’orchestra, non deve impedirci di capire che, a sua volta, egli è simbolo di condizioni del tutto umane, quali il desiderio di contribuire a un’umanità migliore, il voler star saldi nelle proprie scelte tanto più se minacciate dal potere, la resistenza orgogliosa di fronte alle promesse truffaldine di potere e di ricchezza.
Sul senso complessivo dell’opera, pesano moltissimo i contenuti del Prologo e dell’Epilogo: il primo dedicato alla orribile rappresentazione della violenza sui bambini; il secondo dedicato all’impotenza del presunto redentore. Il dramma, cioè, soprattutto dove l’intervento del librettista Solbiati avviene con i soli mezzi dell’orchestra, libero quindi da un diretto condizionamento testuale del romanzo di Dostoevskij, assume connotati nichilisti, ancor più pertinenti con la cultura russa ottocentesca: un nichilismo dove l’opzione religiosa nasce dalla disperazione nei confronti dell’uomo, della società e dello Stato; e una religione dove Dio, se non è morto, non è sicuramente onnipotente.
Prologo ed Epilogo vengono così a costituirsi come due poli opposti. Li chiamerei “l’esistenza del male” e “la rinuncia all’eliminazione del male”. Sono due punti di riferimento affidati alla sola orchestra (il Prologo) o a episodi (l’Epilogo) dove l’orchestra è soverchiante. All’interno il dramma si svolge con parole, personaggi e situazioni, disposti lungo le quattro scene, immaginate dal librettista su tre diversi piani: il primo è quello più vicino allo spettatore, ed è il luogo dei due fratelli Karamazov, con il loro dialogo da cui scaturisce il racconto; il secondo, più lontano dallo spettatore, è quello della rappresentazione del luogo e del tempo, dove si immagina svolgersi la leggenda narrata da Ivan (Siviglia nel XVI secolo); il terzo è nel punto più profondo del palcoscenico, una specie di non-luogo fuori dal tempo, dove rivivono il confronto tra lo Spirito del Male e il Cristo, secondo il racconto evangelico delle tentazioni. Lo schema non dà ragione del tutto del gioco scenico perché – come vedremo particolareggiatamente – continue sono le interferenze tra un piano e l’altro: i fratelli Karamazov assistono a tutto quello che avviene negli altri due piani più interni; l’inquisitore assiste a quello che avviene nel terzo livello. Si tratta insomma di un gioco di piani drammaturgici, dove il più ‘interno’ non interferisce con quelli che lo contengono.
Il centro drammatico si sposta così da un ipotetico presente nel quale i due fratelli discutono di Dio e del male del mondo, al passato storico nel quale si manifesta il Cristo e nel quale il potere è esercitato dalla Santa Inquisizione, a una dimensione fuori dal tempo nella quale avvengono le tentazioni a Cristo da parte dello Spirito del non essere.
Tale materia, che ha la sua genesi in uno statico accostarsi di piani logici e cronologici, diventa drammatica perché si svolge attraverso dialoghi e conflitti. Nella prima scena, ad esempio, è il confronto tra Ivan e Aliòša, che a fasi alterne si manifesta durante tutte le altre scene, in quanto che i due fratelli sono gli spettatori privilegiati di quanto scaturisce dal racconto di Ivan. Nella seconda scena il dialogo avviene tra il coro come personaggio (la folla) e la madre. Nella terza scena è il confronto nel carcere tra l’Inquisitore e il presunto Cristo, il cui silenzio si contrappone costantemente alle parole dell’altro meglio di qualsiasi discorso. La quarta scena continua questo tipo singolarissimo di dialogo, spostandolo tra lo Spirito del non essere e Cristo, con il commento e l’amplificazione da parte dell’Inquisitore.

Il libretto offre quindi l’immagine di una sorta di architettura statica. Il racconto del romanzo viene cioè non solo prosciugato di moltissime parole, ma viene irrigidito in quadri sostanzialmente staccati nei tempi e nei luoghi. Questo suggerisce un tipo di teatro edificante, che prese il nome, in età elisabettiana, di morality (moralità): il vizio e la virtù, il male e il bene, discussi e rappresentati in fatti e protagonisti concreti. Ma la drammaturgia – come si dovrebbe sempre tener presente – viene decisa in sede diversa dal libretto. La musica interviene qui su questa impalcatura sintetica e schematica per darle un’anima espressiva, per affidarle cioè una forza comunicativa che è molto diversa, nella sostanza, dall’essenzialità delle scene e delle parole. La musica, cioè, con il dispiegamento di due orchestre articolate (disarticolate) in un numero enorme di componenti, in complessi vocali di tipo corale e solistico, in parti solistico-vocali dalla variatissima scrittura – scava nei contrasti, dà spessore psicologico ai personaggi e alle situazioni, crea suggestioni spaziali, allaccia rapporti e connessioni tra le scene; crea, soprattutto, percorsi dinamici che non si ricavano dalle parole e neppure dalle didascalie del libretto.
Un esempio ci sembra essere particolarmente illuminante. Il Prologo consiste, in partitura, di un crescendo clamoroso, dove a crescere non è solo la dinamica e lo spessore orchestrale, ma è anche e soprattutto l’esasperazione della dissonanza, la violenza del gesto. Non è ‘rappresentazione’ del male: è la denuncia partecipata e gesticolante della condizione umana, che proviene direttamente non da ciò che viene rappresentato, ma dalla carica emotiva del musicista. Poco infatti si potrebbe capire di quest’opera se non si sentisse nella musica la voce onnipresente del compositore: una voce imperiosa che, nel partecipare alla rappresentazione del negativo, si alza costantemente ad esprimere sdegno verso il reale e, nello stesso tempo, ad affermare la bellezza e la dolcezza dell’ideale.

Il Prologo orchestrale “rappresenta” (con un video? con altre soluzioni registiche? l’autore si affida al regista) questo male, indicato nel suo massimo manifestarsi nell’”innocenza violata, cioè [nel]le infinite sofferenze dei bambini nel mondo d’oggi”. Dal canto suo la musica del Prologo esordisce con un lungo e lancinante (straziante) ‘lamento’ dell’oboe solo, ben presto circondato da presenze armonicamente e timbricamente inquietanti, di antagonisti – si direbbe – che si manifestano lungo un percorso di tremendo accumulo: da accordi di archi “sullo sfondo” a fasce di fiati e percussioni, da rabbiose frammentazioni (Incalzando) a un’esplosione conclusiva di enorme risonanza (il più forte possibile).
La domanda viene formulata nella prima scena. La chiede l’uno all’altro fratello, Ivan ad Aliòša; ma certamente non solo. Lo chiede l’autore a noi, e lo chiediamo noi a noi stessi. Per chi non è credente, è una prova decisiva della non esistenza di un Dio buono e onnipotente; ma, per chi è credente, crescono i problemi di fronte all’assurdità del tutto e, in un certo senso, all’inevitabilità del male.

Nella prima scena la musica va ancora molto al di là di quanto potremmo aspettarci dalle parole del libretto che in forma schematica e molto sintetica impostano il confronto tra i due fratelli in forma di dibattito astratto sull’impossibilità della coesistenza dell’idea di Dio con l’imperversare del Male. La costruzione musicale soccorre invece alla definizione di personaggi ‘reali’, per altro in termini che si discostano un poco anche dalle figure del romanzo, dove Ivan argomenta in modo esaltato e persino aggressivo, mentre qui svolge la trama del suo ‘ragionamento’ in un modo (continuano a dire le didascalie) pensoso e assorto. Ne consegue anche che l’Aliòša del romanzo, esaltato e forte nella sua fede, appare qui con una vocalità mobile e instabile, talvolta più innodica, talvolta più fiorita e ‘leggera’. L’instabilità di Aliòša emerge anche dall’oscillare tra la “voce bianca” e un’emissione “impostata” e più eloquente.
Il maggior contributo che la musica offre all’efficacia di questa sorte di contesa è nella direzione dell’ordine e della inesorabilità del confronto delle idee, che avviene attraverso sette successivi Passi, e attraverso una chiara articolazione delle due posizioni: si alternano momenti siglati in partitura come ‘a’ (quelli del tenore Ivan) e come ‘b’ (quelli del mezzosoprano Aliòša), portano alla formulazione della drammatica contraddizione da cui scaturirà il successivo racconto.
L’apparente schematicità del confronto tra i due fratelli si infrange per l’irruzione, nello schema, di un’inesausta ricchezza di diverse situazioni drammatico-musicali, che vanno dalla cupa meditazione o dall’amara e fin rabbiosa ironia di Ivan, fino al celestiale candore di Aliòša. A rendere più complesso – cioè non sempre diretto – il confronto, intervengono allusioni ‘esterne’ al dialogo; esse fanno da sfondo tematico, e tendono a collocare il dialogo in un appropriato contesto culturale: all’inizio è un Corale (O Mensch, schau Jesum Christum an intonato da 2 flauti e 2 fagotti); a metà della scena è un Credo gregoriano affidato ai corni; al penultimo Passo è ancora un Corale, Ach, Gott, erhör’ mein Seufzen.
Alla dialettica frontale, diretta, che si affida al dialogo e alle diverse vocalità con cui si esprimono i diversi momenti delle diverse psicologie di Ivan e Aliòša, si intersecano plurimi dualismi, affidati anche a differenti scelte strumentali. Tra le più evidenti in questa scena porrei, intorno al canto di Aliòša, le figure che la celesta intesse sopra gli archi tenuti; o l’echeggiare di trombe, corni e tromboni nei momenti più accesi dell’argomentare di Ivan.
Il dualismo non è pura alternanza, poiché la scena si costituisce su un unico arco: il termine ‘passi’ suggerisce che i vari momenti del dialogo si dispongono, per fasi successive e progressive, lungo il cammino che porterà Ivan a narrare il grande apologo del Grande Inquisitore. Verso il termine della scena i ‘passi’ distinti in ‘a’ (Ivan) e ‘b’ (Aliòša), o in ‘a+b’ (quando i fratelli interloquiscono più strettamente), si aprono a una struttura nuova: tra il VI e il VII passo si inserisce un Tema e tre Variazioni, e in questa terza variazione appare l’indicazione ‘climax’: ciò avviene in corrispondenza delle parole con cui Ivan si ribella all’idea che il male possa essere necessario al raggiungimento di un bene superiore, suscitando con ciò la scandalizzata reazione di Aliòša (è una rivolta!).
Ebbene, questo climax rivela la vera natura di questa prima scena che, per quanto articolata secondo le varie fasi (‘passi’) del confronto tra i due fratelli, viene di fatto risolta con un crescendo di tensione che, dopo il climax, ripiega sul racconto della Leggenda. Ancora una volta la musica agisce sulla struttura drammatica del libretto come elemento di irruzione soggettiva e partecipata.

Il passaggio alla seconda scena è graduale, come si conviene al nascere di una situazione evocata dal passato e avvicinata da un luogo lontano: la Siviglia del Cinquecento, connotata dall’orchestra con una serie di citazioni da tempi e luoghi lontani.

A poco a poco il centro d’interesse si sposta sulla scena sevillana alle spalle di Ivan e Alioscia

Nell’economia dell’opera, questa seconda scena svolge la funzione della massima esteriorizzazione della teatralità, con scoperte propensioni persino verso la couleur locale, di una Sevilla percorsa da canzoni e danze ‘originali’.
In realtà, subito sotto la colorata superficie la drammaturgia continua ad attestarsi saldamente sui rapporti dialettici, in questo caso clamorosamente costruiti su una sorta di logica pieno-vuoto di grande tradizione. ‘Piena’ la piazza di Sevilla con la folla-coro e il roteare di canzoni e danze. Vuote le apparizioni, con il silenzio che viene segnando l’apparizione del presunto Cristo, della madre della bambina morta, del miracolo della resurrezione compiuto da Cristo e infine con l’apparire dell’Inquisitore che trascina il presunto Cristo nella prigione. Non presente nel libretto in quanto tale, la dialettica si svolge perciò con energia costruttiva pari a quella della prima scena: e su questa dialettica si fonda ancora lo spessore concettuale di questo teatro che non ha come fine la rappresentazione, bensì la riflessione (o, se si vuole, la proiezione) concettuale sulle massime questioni dell’esistenza.
La “piazza di Sevilla nel Cinquecento” è dunque uno degli elementi del perdurante dualismo. Credo utile un elenco degli “oggetti” musicali disseminati in partitura. Troviamo una Canzone di Gerineldo con flauto e ottavino e il tamburello nelle percussioni; un canto di lavoro, Ah si no fossi, connotato dai fagotti; un tiento di Antonio de Cabezón, con i due corni; una Canzone di Francisco Guerrero, con le due trombe; le Diferencias sobra la Galliarda milanesa di Antonio de Cabezón, intonata dalla fisarmonica in scena; di nuovo il canto di lavoro, con i due fagotti nell’orchestra A e il clarinetto basso nell’orchestra B; la Fantasia n. 10 di Alonso de Mudarra, intonata dalla chitarra in scena; il canto penitenziale Peccantem me quotidie affidato al coro.
Si noti la forte intenzione di caratterizzare con scelte timbriche molto differenziate e quindi molto riconoscibili le numerose citazioni. L’intenzione è quindi dichiaratamente drammatico-rappresentativa, non filologica, anche se colpisce la precisione storica con cui, ad esempio, si citano musicisti come Mudarra e Guerrero che collaborarono effettivamente, in quegli anni, alle musiche per la cattedrale di Siviglia.
Il roteare, il frammentarsi e il ricomporsi, il variare di peso sonoro e di dinamica di queste citazioni disegna ancora una volta una direzione verso un accumulo esasperante, destinato a infrangersi clamorosamente per lasciare spazio a quell’altra componente del rapporto dialettico che prima indicavamo: il silenzio. A questo chiaro disegno costruttivo partecipa vigorosamente anche il coro, a otto voci e diviso tra l’emissione ‘normale’ con parole e l’emissione a bocca chiusa (citazione forse involontaria del coro iniziale della “Mano felice” di Schoenberg?). Questo episodio si tronca una prima volta, dunque, su un molto forte, all’apparire sulla scena del presunto Cristo: nella rarefazione sonora di questo momento di sospensione echeggiano ancora la canzone di Gerineldo e un corale affidato a fisarmonica e chitarra sulla scena. Poi un nuovo poderoso crescendo che culmine in fortissimo e ancora una brusca interruzione, che segna il riconoscimento del Cristo da parte della folla, la quale esplode subito dopo in un Osanna (È Lui, dev’essere Lui!).
Un altro silenzio segna l’ingresso del canto dolorosamente melismatico della Madre con il bimbo morto sulle braccia. Un altro ancora segue la sua pressante perorazione (Riscuoti mio figlio!). Ancora un altro silenzio crea un sorta di vuoto magico intorno al coro che, come riverberando Cristo, che rimane immobile e silenzioso, scandisce la formula miracolistica Talitha kum!.
Un altro, infine, accompagna l’emergere dell’Inquisitore e il suo gesto imperioso, che, ingiungendo al presunto Cristo di seguirlo, segna l’uscita dalla scena della piazza e l’ingresso in quella della prigione.
Le forti ragioni costruttive che emergono dal dualismo pieno-vuoto (o, se si vuole, propulsivo-sospensivo) sono ribadite anche in questa seconda scena con il raggiungimento di un climax che viene indicato in partitura in corrispondenza con il gesto dell’Inquisitore e che viene seguito dalla tremebonda dissolvenza delle oscillazioni microtonali di archi e clarinetti.

La terza scena, che si svolge nella prigione, segna, rispetto al vertice dell’apparente e provvisoria esteriorità della seconda, il momento della massima interiorizzazione. In termini letterari la scena si presenta come un monologo dell’Inquisitore di fronte a un Cristo muto. In realtà le sezioni orchestrali (timbricamente connotate) che ‘rappresentano’ il Cristo, si ergono con grande eloquenza a contrastare, interrompere ed esasperare i discorsi dell’Inquisitore. In partitura vengono scanditi tre Responsori, a perpetuare il dualismo dialettico su cui si fondano le due scene precedenti; soltanto che qui lo pseudo-dialogo tra l’Inquisitore e il Cristo si colloca su un secondo livello di profondità a cui si sovrappone, in primo piano, il dialogo-commento di Ivan e Aliòša.
Il primo responsorio consiste nel succedersi di breve sezioni in cui si alternano l’Inquisitore (il cui canto è sostenuto da un sestetto vocale e da una fascia sonora formata dagli archi solisti: Sei tu?, Non rispondere, sei venuto a disturbarci, lo sai?) e la parte muta del Cristo, presente in orchestra con le distillate dolcezze di oboe e ottavino, dagli archi e dalle note straniate del vibrafono sollecitato dall’archetto.
Il commento di Ivan e Aliòša avviene nella Coda successiva: Aliòša è instabile e inquieto, mentre Ivan è assorto, con un’inquietudine orchestrale che si affida alle trombe, al flauto e alle parti frammentate degli archi; la presenza del vibrafono sullo sfondo ma sentito chiarisce che su questa porzione di scena, si riverbera – stimolando a una difficile riflessione – quanto avviene nella porzione più interna.
Nel secondo Responsorio l’Inquisitore rievoca quanto la turba sia pronta a passare dall’Osanna al Crucifige: il sestetto vocale, il gruppo degli archi soli, il piatto sospeso, due corni e poche note della tromba, rendono tangibile l’amara rievocazione del Crucifige, a cui Cristo “risponde”, in orchestra con il suono dolcissimo dell’oboe e dell’ottavino, e radi armonici degli archi. Lo pseudo-dialogo procede con simili contrasti di orchestrazione. E la Coda che segue affida all’orchestra, con la rassicurante citazione di un Corale, il pertinente sostegno agli interventi fideistici di Aliòša.
Il terzo Responsorio segna un punto culminante nell’aggressività, anche dei gesti vocali, con cui l’Inquisitore enuncia il principio che libertà e felicità non possono essere tra loro coniugate, e che la Chiesa (mai citata da Solbiati come tale, ma chiaramente ‘rappresentata’ dall’Inquisitore) è stata garanzia di felicità per gli uomini, sottraendo loro la libertà. Queste verità vengono talvolta proclamate con una vocalità solenne, fortemente declamata, come quando il Cristo viene accusato di aver rifiutato l’unica via alla felicità. Eppure il canto dell’Inquisitore assume, anziché connotati realistici, sinistri bagliori di straniamento, per via soprattutto di un’orchestrazione affidata ai pizzicati veloci – a scale incrociate – degli archi solisti, al timpano con bacchette dure, ai trilli dei corni. Tanta concentrazione di energia si ripercuote sui commenti esasperati di Aliòša (dolce e un poco ironico nel commentare come le parole dell’Inquisitore potrebbero dimostrare che il diavolo è stato creato dall’uomo, e che forse qualcuno – Ivan? – potrebbe pensare che anche Dio è stato creato dall’uomo); e di Ivan, sempre assorto e amaro.
L’Inquisitore accenna, in questa terza scena, alle tentazioni dello “Spirito del non-essere” a cui Cristo ha resistito durante i quaranta giorni nel deserto; tentazioni a cui, secondo l’Inquisitore, Cristo avrebbe dovuto cedere per riuscire davvero a conquistare gli uomini. La tematica, qui appena enunciata, viene poi sviluppata con la rievocazione rappresentativa della quarta scena. In essa si concentra così, secondo la scelta del librettista-musicista, la parte più estesa, forse la più contraddittoria e intricata, del racconto di Ivan nel romanzo di Dostoevskij.

Scena IV – Le tentazioni nel deserto non hanno in Leggenda il peso quantitativo che hanno nel romanzo. La quarta scena occupa infatti nell’opera poco più che un terzo della durata, mentre nel Racconto occupano quasi i tre quarti della lunghezza. Ciò è dovuto principalmente all’estensione della scena di Siviglia. Ma dipende soprattutto dalla scommessa del musicista di far emergere il valore capitale (esistenziale e teologico insieme) del confronto tra lo Spirito del non-essere e il Cristo, prima di tutto attraverso l’enorme rilievo che viene dato alla scena dall’ingigantirsi della “cornice” in cui viene inserita, con un Prologo e un Epilogo dove l’orchestra ricopre un ruolo simbolico densissimo. In secondo luogo, in questa scena si sovrappongono, con una serie di reciproci rimandi, i tre livelli drammaturgici su cui – come dicevamo – è articolata la drammaturgia, soprattutto musicale, di quest’opera: quello del “presente” di Ivan e Aliòša; quello del “passato storico” a cui appartengono l’Inquisitore e il presunto Cristo apparso a Siviglia; quello di un “tempo-spazio mitico”, a cui si riferisce l’incontro tra lo spirito del male e il Redentore.
Nel Prologo, dice il libretto, appare sullo sfondo il terzo livello, luogo elevato e astratto, con lo spirito del male e davanti a lui un Cristo immobile e silenzioso. Il coro è sullo sfondo, voce e anima del deserto, vocalizzante. La fisarmonica è ora fuori scena. Sulla pulsazione degli archi (grandi accordi con quinte vuote) emergono gli strumentini, tra cui un tristaniano corno inglese. Ancora una volta la funzione introduttiva è svolta da un grande crescendo generale, fino a un fortissimo minacciato e inquieto.
La scena si articola in tre Proposte, come sono indicate le tentazioni dello Spirito del Non Essere. L’impianto dialettico è quindi ancora riconoscibile nella successione delle tre “proposte”, ambientate in pannelli orchestral-corali sfibrati e distorti (glissati veloci, oscillazioni, e simili), sulle quali interviene ogni volta l’Inquisitore, eternamente oscillante tra l’insinuazione ghignante in contesti orchestrali e corali inquietanti e la solida proclamazione delle “sue” verità. In questa scena, però, il dualismo si disarticola per gli interventi di Aliòša le cui intemperanze mistiche si esprimono con vocalismi sempre più incontenibili. Cresce poi, per debordare in tutta la parte finale dell’opera, la componente “dolcissima” – nel timbro e nell’armonia – che si riferisce alla presenza e all’agire del presunto Cristo.
Dopo l’ultimo irrisolto confronto tra Ivan e Aliòša, si apre infatti il lungo e articolato Epilogo, che dovrebbe chiarire il senso di tutto il racconto (così almeno inizialmente si è portati a credere) con l’abbraccio del presunto Cristo all’Inquisitore, il quale, quasi per miracolo, risolve di lasciarlo libero: momento rituale, addirittura estatico con il ridursi di tutta l’orchestra alla sola nota La. Eppure questo abbraccio, lungamente assaporato dalla musica, non risponde a tutte le domande che si sono via via affollate non solo in Aliòša, con la sua ipersensibilità da mistico visionario, non solo in Ivan, con il suo disperato bisogno di certezze razionalmente accettate, ma soprattutto in quel personaggio che dicevamo onnipresente e partecipe che è il compositore, il quale accompagna fuori scena il suo muto protagonista con un lungo Viaggio orchestrale, articolato in Variazioni, ognuna delle quali sembra indicare un diverso stato d’animo, una diversa prospettiva sugli enigmi che si ergono minacciosi e inquietanti dalla vicenda appena rappresentata. E ancora, dopo il Viaggio, una ulteriore Coda di più di settanta battute, dove si rende palpabile lo smarrimento di chi non ha facili certezze: nello spazio sonoro, tra la nota più acuta e la nota più grave appare, nell’ultimo minuto, un violoncello solista, su cui l’autore ha richiamato più volte la mia attenzione: è voce umana, certamente; la sua, mi parrebbe; ed è inibita a un canto risolutore, rimanendo – tesa tra gli estremi di quel vuoto orchestrale – come lo potrebbe essere – mi viene suggerito – un corpo umano con le braccia protese.
È degno di nota che un teatro musicale che si presenta come una “moralità” elisabettiana rinunci, in questo modo, a proporre un messaggio chiaro, portatore di certezze. Dostoevskij, almeno, “spiega” con questo racconto la scelta di ‘immoralità’ di Ivan, il suo senso di colpa senza speranza di redenzione (affine, in ciò, al Raskolnikov di Delitto e castigo). In Solbiati neppure questo: avulsa dal contesto del romanzo, Leggenda apre lo sguardo sulla diabolicità del potere, proclamando che quello sulle anime è il più diabolico; considera impossibile che una folla resa ‘felice’ dal troppo pane lotti per la libertà; rappresenta la sconfitta di chi vorrebbe portare la redenzione all’umanità.
Eppure il messaggio c’è e si affida alla possibilità evocativa della musica. Il protagonista muto, il Cristo, nell’Epilogo si allontana progressivamente – in una lunghissima e lenta sequenza – da un mondo ormai irredimibile. Eppure questo teatro musicale, pur non pretendendo di decidere quale possa essere la soluzione all’intrico dei problemi sollevati dal racconto di Ivan (il dolore, la malvagità, il potere, la libertà, la felicità), riafferma la positività di un’utopia: quella di sottrarre quei problemi, decisivi per la vita e la morte di ognuno, dall’apatia e dalla distrazione a cui ci induce “il troppo pane”.


DOUBT THAT MAKES DRAMA
BY GUIDO SALVETTI

Alessandro Solbiati has often expressed his passionate concern to communicate through his music. This explains his use of a form of theatre that examines some particularly pressing moral questions: in 2009, with Il Carro e i Canti (The Cart and the Songs) from “A Feast in Time of Plague” by Alexander Pushkin, and now with Leggenda (Legend). His choice of great eighteenth-century Russian writers – Pushkin and Dostoyevsky – as major sources for his librettos indicates the means and scope of his intention. The means are those of Russian realism, which aimed to explore its own recent past and present to shed light upon the mystery of the future. The scope includes fundamental questions about good and evil, happiness and pain, power and freedom.
These essentially philosophical questions can take on a religious slant if one foregoes an actual answer and refers to some far-off perspective, verging on the infinite. It is only in this sense that one might venture to find underlying religious themes in Solbiati’s operas. And the fact that Christ, the main character in Leggenda, is depicted as mute and always represented by the orchestra, should not prevent us from understanding that he, in his turn, is symbolic of essentially human conditions: whether they be a desire to help improve humanity, a wish to stay true to your choices particularly when threatened by the powerful, or proud resistance in the face of false promises of power and wealth.
The contents of the Prologue and the Epilogue contribute greatly to the overall meaning of the work. The former presents a horrible picture of violence against children, while the latter shows us the impotence of the supposed Redeemer. So the drama takes on nihilistic overtones, especially where Solbiati’s libretto is carried forward solely by use of the orchestra, and so without any textual input from Dostoyevsky’s novel. Such nihilistic connotations were particularly pertinent to nineteenth-century Russian culture: a climate where the religious option sprang from a feeling of despair in relation to other people, society and the State. This was a form of religion where God, if not dead, certainly was not omnipotent. The Prologue and Epilogue therefore represent two opposite poles. One might term them “the existence of evil” and “the failure to eliminate evil”. These two points of reference either solely involve the orchestra (the Prologue) or passages where the orchestra is predominant (the Epilogue). Between these, the drama develops in words, characters and situations, arranged in four scenes which the librettist presents on three different levels. The first is the one closest to the audience: the position for the two brothers Karamazov, whose conversation gives rise to the story. The second level, further from the audience, represents the place and time where we can envisage Ivan’s story is played out (Seville in the sixteenth century). The third level, right at the back of the stage, is a sort of non-place outside time, where the confrontation between Christ and the Spirit of Evil is replayed, in line with the Gospel story of the temptations. This outline does not explain the whole scenic arrangement because, as we will see in more detail, there is constant interference between one level and another: the brothers Karamazov witness everything that is happening on the two levels behind them; the Inquisitor witnesses everything that is occurring on the third level. So it is a game of dramatic layers, where the “innermost” layer does not intrude on the others that contain it.
In this way, the focus of the drama moves from a hypothetical present, in which the two brothers talk about God and the evil in the world, to a historical past in which Christ appears and when power was exercised by the Holy Inquisition, to a dimension outside time where Christ is tempted by the Spirit of non-being.
Although the piece relies on a static relationship between planes in terms of logic and chronology, it takes on a dramatic quality by developing through dialogue and conflict. The first scene, for example, involves the discussion between Ivan and Alyosha, and this occurs on and off during all the other scenes, since the two brothers are privileged spectators of what flows from Ivan’s story. In the second scene, the dialogue takes place between the chorus (in the person of the crowd) and the mother. In the third scene, we see the confrontation in prison between the Inquisitor and the supposed Christ, whose silence provides a better riposte than any form of words. The fourth scene continues this unusual type of dialogue, now between Christ and the Spirit of non-being, with comments and additions by the Inquisitor.

The libretto therefore gives us the picture of a sort of static structure. The story in the novel is not only stripped of many words, but is turned into a series of tableaux essentially detached in time and space. This suggests the type of edifying drama known as the morality play during the Elizabethan age; with vice and virtue, good and evil, discussed and represented in terms of real protagonists and events. However, we should always bear in mind the fact that the dramatic content operates in a different mode from the libretto. The music acts upon this terse, rigid structure to give it an expressive feeling, lending it a communicative force that is essentially different from the stripped-down nature of the scenes and words. The music makes use of two orchestras, arranged and broken down into a huge number of components, and vocal combinations in terms of choruses and solos, with solo vocal parts of very varied composition. In this way, it penetrates the contrasts in the piece, gives psychological depth to the characters and situations, creates spatial allusions, and establishes relationships and connections between the scenes. Above all, it creates dynamic links not implicit in the words or even in the stage directions for the libretto.
One such example seems particularly effective. In the score, the Prologue consists of a clamorous crescendo, not only involving increased orchestral depth and dynamism, but also and above all, the exasperated sound of dissonance, and violence of gesture. It is not a ‘representation’ of evil: it is a shared, physical denunciation of the human condition, which does not issue directly not from what we see on stage, but from the emotional charge of the music. Indeed, it would be difficult to understand this work without hearing the composer’s omnipresent voice in the music. It is an urgent voice which, while helping to depict the negative, is constantly stepping in to express indignation towards reality and, at the same time, to maintain the beauty and sweetness of the ideal.

The orchestral Prologue “represents” this evil (with a video, or by other means that the writer entrusts to the director), depicted in its maximum form as “violated innocence, i.e. the infinite suffering of children in today’s world”. For its part, the music of the Prologue begins with a long and excruciating ‘lament’ by a solo oboe, soon joined by the disturbing harmonies and tones of what one might term the “antagonists” – depicted in a terrible build-up of sound: from the string chords “in the background” to sections of wind and percussion, with a furious fragmentation culminating in a final, resonant explosion.
The question is presented in the first scene. The two brothers, Ivan to Alyosha, put it to each other; but they are not alone. The writer asks us, and we ask ourselves. For those who are not believers, it provides decisive proof of the non-existence of a good and omnipotent God; while for the believer, the problems lie in confronting the absurdity of it all and, in a certain sense, the inevitability of evil.

In the first scene, the music goes far beyond what we might expect from the words of the libretto, which presents the discussion between the two brothers in an abbreviated way, in the form of an abstract debate about the impossibility of the coexistence of the idea of ​​God with the ravages of Evil. On the other hand, the musical composition helps to depict ‘real’ characters, although in terms rather different from the figures in the novel. There, Ivan argues in a passionate and even aggressive way, while here he outlines his ‘reasoning’ in a way which (according to the stage directions) is pensive and intent. It follows from this that the character of Alyosha, depicted in the novel as firm and strong in his faith, is presented here in a more changeable vocal style, sometimes more like a hymn and sometimes “lighter” and more flowery. Alyosha’s mutability also emerges in the vacillation between a “child chorister” and a more articulate and “operatic” voice.
The greatest contribution the music makes to the effectiveness of this kind of dispute is in managing the relentless succession of conflicting ideas. This is achieved through a sequence of seven Passages, and through a clear separation of the two positions. There are alternating parts indicated in the score as ‘a’ (those of tenor Ivan) and as ‘b’ (those of mezzosoprano Alyosha), leading to the creation of the dramatic paradox from which the next story will emerge.
The apparently brief character of the confrontation between the two brothers is interspersed with a rich array of dramatic and musical devices, ranging from the gloomy meditations or the bitter and furious irony of Ivan, to the celestial purity of Alyosha. To make the confrontation more complex – i.e. not always so direct – various ‘external’ allusions are added to the dialogue. They form a background to the subject-matter, and serve to place the dialogue in an appropriate cultural context. At the beginning is a Hymn (O Mensch, Schau Jesum Christum an played by 2 flutes and 2 bassoons); halfway through the scene is a Gregorian Creed performed by the horns; and in the penultimate Passage there is yet another Hymn, Ach, Gott, Erhör’ mein Seufzen.
The direct discussion, reliant on the dialogue and the different voices used to express the contrasting psychologies of Ivan and Alyosha at different times, is also intersected by multiple contrasts provided by different types of instrument. Among the most evident in this scene are those around the song of Alyosha, with the celesta weaving patterns above the sustained strings; or the echo of trumpets, horns and trombones during the most heated moments in Ivan’s argument.
The dualism is no simple alternation, because the scene takes place in a single time frame. The term ‘passages’ implies that the various moments in the dialogue are arranged, in successive stages, along a pathway that will lead Ivan to narrate the great apologue of the Grand Inquisitor. Towards the end of the scene, the distinct ‘passages’ of ‘a’ (Ivan) and ‘b’ (Alyosha), or of ‘a + b’ (when the brothers get involved more closely), give way to a new structure. Between passages VI and VII, a Theme with Three Variations is inserted, and this third variation contains the direction ‘climax’. This occurs in conjunction with the words used by Ivan to repudiate the idea that evil may be necessary to achieve a higher good, thus provoking a scandalised reaction from Alyosha (it’s a revolt!).
So this climax reveals the true nature of this first scene which, although arranged in line with the various stages (‘passages’) of the confrontation between the two brothers, is in fact resolved in a crescendo of tension which, after the climax, retreats to the story of the Leggenda. Once again, the music intrudes into the dramatic structure of the libretto as an active participant.

The transition to the second scene is gradual, in order to conjure up a situation inspired by the past and approached from a distance: Seville of the sixteenth century, suggested by the orchestra with a series of references to distant times and places.

The focus of interest gradually moves to the scene in Seville behind Ivan and Alyosha.
Within the constraints of the opera, this second scene gives maximum exposure to the theatrical, with an obvious bent towards local colour in a Seville threaded through with ‘original’ songs and dances.
But in fact, immediately below this colourful surface the drama continues to focus on rational relationships, in this case clearly based on a form of full-or-empty logic in the great tradition. “Full” is the square in Seville with its crowd-chorus and whirling songs and dances. “Empty” are appearances, with a silence that marks the appearance of the supposed Christ, of the mother of the dead child, of the miracle of Christ’s resurrection, and finally the appearance of the Inquisitor who drags the supposed Christ into the prison. Although not present in the libretto as such, the discussion takes place with a positive energy equal to that of the first scene: and this debate is still based on the weighty ideas of this drama, which aims not to represent but rather to reflect upon (or throw light upon) the most important questions of existence.
The “square in Seville in the sixteenth century” is therefore one of the elements in this ongoing dualism. I think it would be useful to list the musical “items” distributed throughout the score. There is the Song of Gerineldo with flute and piccolo, and with tambourine as percussion; a work song, Ah si no Fossi, accompanied by bassoons; a Tiento by Antonio de Cabezón, with two horns; a Song by Francisco Guerrero, with two trumpets; Diferencias sobra la Galliarda Milanesa by Antonio de Cabezón, played by the accordion on stage; another work song, with the two bassoons in orchestra A and the bass clarinet in orchestra B; the Fantasy no. 10 by Alonso de Mudarra, played by the guitar on stage, and the penitential song Peccantem me Quotidie performed by the choir.
One notes a firm intention to choose very different and therefore very easily recognisable tones to characterise the many musical references. The purpose is therefore openly dramatic and representational, rather than philological, even if it affects the historical accuracy with which, for example, musicians such as Mudarra and Guerrero are referenced: who actually provided music for Seville cathedral during that period.
The swirling around, the fragmentation and rebuilding, the varying energy and weight of sound in these references once again leads towards an intensifying build-up, which shatters noisily to make way for that other element in the logical relationship we referred to previously: silence. The chorus plays a lively part in this design, and consists of eight voices divided between ‘normal’ singing with words and humming (perhaps an involuntary allusion to the initial chorus in Schoenberg’s “Happy Hand”?). This episode therefore breaks off for the first time on a fortissimo note, with the appearance on stage of the supposed Christ. In this rare moment of suspension the Song of Gerineldo still continues to echo, with a hymn played by accordion and guitar on the stage. This is followed by another powerful crescendo that climaxes in fortissimo, and again an abrupt interruption, marking the recognition of Christ by the crowd, which explodes immediately afterwards into a Hosanna (It’s him, it must be him!).
Another silence marks the start of the sorrowful melismatic song of the Mother, carrying the dead child in her arms. Yet another follows her urgent plea (Redeem my son!). Still another silence creates a sort of magic space around the choir, who, while the echoing figure of Christ remains still and silent, chants the miraculous formula Talitha kum!.
A final silence accompanies the entry of the Inquisitor who, with an imperious gesture, orders the Christ figure to follow him, marking the end of the scene in the square and the start of that in the prison.
The logical structure established with the full-empty dichotomy (or the start-stop effect) is reaffirmed in this second scene. A climax is reached, indicated in the score to correspond with gesture by the Inquisitor, followed by the fading sound of trembling notes from the strings and clarinets.

The third scene takes place in the prison, and in contrast to the temporary and external character of the second, is of a completely internal nature. In terms of written content, the scene appears as a monologue, spoken by the Inquisitor in front of a mute Christ. But in reality, certain sections of the orchestra (with particular tonal associations) ‘represent’ Christ, and soar with great eloquence to oppose and frustrate the speech of the Inquisitor. In the score, they are identified as the three Responsories, and perpetuate the logical duality on which the two previous scenes are based; only here, the pseudo-dialogue between the Inquisitor and Christ is sited on a second platform, below the level in the foreground where the dialogue-comment by Ivan and Alyosha takes place.
The first Responsory consists of a succession of short sections alternating between the Inquisitor (whose song is backed by a vocal sextet and a band made up of solo strings: Is it you? Don’t answer, you’ve come to bother us, haven’t you?), and the mute part of the supposed Christ. The latter is represented by the orchestra, with sweet, pure sounds from the oboe and piccolo and from the strings, and by strange notes drawn from a vibraphone by the use of a bow.
The commentary by Ivan and Alyosha occurs in the next Coda: Alyosha is jumpy and agitated, while Ivan is absorbed. The orchestra evokes this restlessness by use of the trumpets, flute and disjointed additions by the string section. The sound of the vibraphone can be heard in background during this part of the scene, and its reverberating sound provokes a difficult reflection about what is happening in the innermost space.
In the second Responsory, the Inquisitor recalls how ready the crowd is to move from the Hosanna to the Crucify Him. The sextet of voices, the group of solo strings, the gong, two horns and a few notes from the trumpet provide a bitter re-enactment of the Crucify Him, to which Christ “responds” in the form of the orchestra, with sweet sounds from the oboe and the piccolo, and harmonious tones from the strings. The pseudo-dialogue continues with similar contrasts in the orchestration. And the following Coda is played by the orchestra, with reassuring allusions to a Hymn, providing apposite support for Alyosha’s professions of faith.
The third Responsory marks a climax in the aggressive tone, including in the vocal manner in which the Inquisitor declares the principle that freedom and happiness cannot be combined, and that the Church (never actually mentioned by Solbiati, but clearly ‘represented’ by the Inquisitor) guarantees men’s happiness while taking away their freedom. These ‘truths’ are sometimes proclaimed strongly in a solemn voice, as when Christ is accused of having refused the only path to happiness. Yet instead of appearing tied to reality, the Inquisitor’s song often seems curiously estranged, and sinister hints of this are provided by fast pizzicato sounds from the solo strings, played contrapuntally, by harsh drumming, and by the trilling of horns. All this energy impacts on the exasperated comments by Alyosha (who suggests gently but a touch ironically that the Inquisitor’s words could indicate that the devil was created by man, and that maybe someone – Ivan? – might think that God was created by man too); and also on the remarks by Ivan, who remains absorbed and bitter. In this third scene, the Inquisitor mentions the temptations of the “Spirit of non-being”, which Christ resisted during his forty days in the desert, adding that Christ should have yielded to these temptations if he really wished to conquer mankind. The theme stated here is then further developed in the re-enactment in the fourth scene. The composer-librettist chooses to concentrate into this scene the longest and perhaps the most contradictory and intricate part of Ivan’s story in Dostoevsky’s novel.

Scene IV – The temptations in the desert are not given the same lengthy treatment in the Leggenda that they have in the novel. Indeed, the fourth scene accounts for little more than a third of the length of the opera, while the Story takes up almost three quarters of its length. This is mainly due to the length of the scene in Seville. But it depends above all on the challenge to the composer to bring out the maximum value (both existential and theological) from the confrontation between the Spirit of non-being and Christ, primarily by giving extra weight to the scene by enlarging the “frame” around it, with a Prologue and an Epilogue in which the orchestra plays a very symbolic role. Secondly, the three levels into which the work is divided, particularly in musical terms, are all overlaid in this scene, using a series of interconnecting references. So we have the “present” level of Ivan and Alyosha; the “historical past” with the Inquisitor and the supposed Christ in Seville belong; and the “mythical space-time” dimension, with the encounter between the spirit of evil and the Redeemer.
In the Prologue, according to the libretto, the third level appears in the background: a high, abstract place, with the spirit of evil facing a still and silent Christ. The choir is heard in the background, evoking the voice and soul of the desert. The accordion is now off-stage. With the strings playing great pulsing chords, the instruments emerge, including an English horn. Once again, the introductory function is performed by a great general crescendo, leading up to a threatening and restless fortissimo.
The scene is divided into three Proposals, as the temptations of the Spirit of Non-Being are called. The logical structure is therefore still present in the series of three “proposals”, set in brittle, distorted passages for chorus and orchestra (with rapid glissati, vibrati, and the like), with interventions by the Inquisitor. There is a constant back-and-forth between his sneering insinuations, the unsettling atmosphere of the orchestra and choir, and his firm proclamation of “his” truths. However, in this scene, the dualism is disrupted by very vocal interventions from Alyosha, whose mystical excesses are becoming increasing uncontrollable. Then, to lead us into the final part of the opera, there is the “dolcissima” section – gentle in both tone and harmony – which refers to the presence and actions of the supposed Christ.
After the final unsolved confrontation between Ivan and Alyosha, the long, structured Epilogue begins, which should clarify the meaning of the whole story (or so we are initially led to believe). The supposed Christ is embraced by the Inquisitor who, almost miraculously, resolves to let him go free. It is a ritualistic, almost ecstatic moment, with the whole orchestra concentrated on playing a single “A”. Yet this embrace, with its long musical accompaniment, does not answer all the questions that have been building up not only in Alyosha, with his sensitivity as a visionary mystic, nor only in Ivan, with his desperate need for rational certainties, but above all in that person who we described as both omnipresence and participant: i.e. the composer. For he has been the off-stage presence who has accompanied his mute protagonist on this long orchestral Journey with its set of Variations, each of which seems to indicate a different state of mind, and offer a different perspective on the threatening, disturbing questions that have arisen from this story. And then again, after the Journey, there is one further Coda of more than seventy bars, where we feel a sense of palpable loss for those who have no easy certainties. In the sound space, between the highest and the lowest note, a solo cello comes in at the last moment, to which the composer has already alluded several times: it is a human voice with a song of resolution, and of course it would seem to be his. And stretched across that empty space without the orchestra, might it perhaps represent a human body with outstretched arms?
It is noteworthy that an opera that presents itself as an Elizabethan “morality” play refuses, in this way, to bring us a clear message or propose any certainties. At least Dostoevsky “explains” with his story the choice of ‘immorality’ by Ivan, and his sense of guilt without hope of redemption (similar, in this way, to Raskolnikov in Crime and Punishment). With Solbiati, there is not even this. Detached from the context of the novel, his Leggenda opens our eyes to the diabolical nature of power, asserting that power over souls is the most diabolical; it suggest the impossibility that a crowd made ‘happy’ by too much bread would fight for freedom; it represents the defeat of those who would like to bring redemption to humanity. Yet the message is there, reliant on the evocative possibilities of the music. In the Epilogue, the silent Christ figure gradually moves away – in a long, slow sequence – from a world that is now irredeemable. Yet this opera, while not pretending to know possible solutions for the many problems raised by the story of Ivan (problems of pain, wickedness, power, freedom, happiness), still reaffirms a positive, idealistic approach: the idea of removing the apathy and inertia produced by “too much bread” from our ability to face those problems that are so decisive for the life and death of everyone.


ABOUT “LEGEND”
BY ALESSANDRO SOLBIATI

Many times, recently, I was asked why, after have been writing for thirty years a lot of instrumental and vocal music, and said repeatedly and with conviction that I would never have dealt with musical theater, then, in the space of three years, I have composed not only one, but two works: the first one, Il carro e i canti, commissioned by Teatro Verdi in Trieste for the 2008-2009 season and the second one, this so beloved my Leggenda (Legend), commissioned by Teatro Regio in Torino for the 2010-2011 season. Two are the reasons: one strictly musical and the other extra-musical. But, before exposing on these reasons, the order of the two works must be rearranged, not only for a pure chronological exactness, but just with reference to the two reasons mentioned above: the date of their staging is in fact the opposite of that of their conception . The project for a work on the Legend of the Great Inquisitor by Dostoevskij has been inside me for many years, but it was only in July 2007 I had the courage to propose it, finding in my friend Gianandrea Noseda an immediately warm welcome, for which I will thank him forever, during a phone call, for me unforgettable, made while I was in a taxi. I remember that my first thought, hanging up, was: but is it always so easy to propose a work in a theater, and not in any theater, but at the Regio di Torino? Indeed the answer is no, it’s not always so easy. You must find on your own way a generous and passionate musician like Gianandrea, at least. I was in the middle of my Dostoevskijane reflections when, in the last days of January 2008, at the end of a beautiful performance of my symphonic piece by the Orchestra of the Theater of Trieste, the Artistic Director commissioned me, a bit of sudden, a “half-evening” work, ie lasting about 50’, but giving me very short times: from the first proposal that evening to the staging of the opera, in fact passed only fourteen months. I will always thank him for that opportunity he offered to me: The wagon and the songs (not by chance also based, by my own choice, on a Russian literary work, The Plague Time Party, by Alexander Puskin) had a wonderful reception, in Trieste, but above all, as far as I am concerned, it has allowed to me, a rather expert composer but totally debutant in the theatrical field, to experiment and verify the merits and defects of a vast series of scenic, narrative, vocal and orchestral modalities. The wagon and the songs has constituted an extraordinary test field in view of the most extensive and complex Dostoevsky opera. At the end of the Triestine executions, I threw myself headlong into the construction of the text for Legend: in its fundamental framework it was ready in late summer 2009. But I began writing the score only much later, in mid-May 2010, and I ended, after a work that wonderfully involved all my energies and every hour of the day, on March 22, 2011. I now return to the two reasons I mentioned earlier. The first one: the musical reason. Since my compositional beginnings, in the late ‘70s, and then more and more consciously, I have pursued a certain musical clarity, the cleanliness of the first sonic impact, that is the evidence of the musical figure and its ways of evolution, development, transformation. The figure is the nature itself, the character, the physiognomy of a sound event, that makes it in some way decodable and also describable, in a word “understandable”. However, this desire of evidence never had to give up another component that I felt essential: complexity. I always thought that the best European music, in every age, has been the one that finds a balance point between clarity and complexity, and so it allows different levels of listening. Think of my beloved Brahms: you can “be satisfied” with the emotion arising from the pure beauty of the themes or you can go deeper and taste the complexity of its compositional structures, which however leave the first level of fruition unchanged. My need for “complex evidence” has more and more involved the whole musical form: but a music whose gesture is clearly identifiable in its immediate appearance, as in its subsequent evolution, is in fact a music in some way “narrative”, though abstractly. The “narrativity” of music, its possibility to unravel my imaginative paths in a recognizable and memorable way, but never totally explicit, has become more and more important for me, my real center of interest. A certain number of my works, all of them composed at least in their final version between 2005 and 2010, seems to me they have reached the desired level of “complex narrativity”: I’m talking about pieces for ensembles such as Chamber Symphony or Living and orchestral pieces like Sinfonia, Sinfonia seconda and Sinfonia terza. But at this point I couldn’t get out of making this reflection: if I thought I had achieved a good balanced level between clarity and complexity, in the single moment and in the form, so to be able to abstractly “tell” the ways of my inner energies, why shouldn’t have I put this capacity at the service of an objectified narrativity, projected onto a scene? Of course it was also possible to wonder why I would have to do it, since I had a certain suspicion towards musical theater, perceived as less “absolute” than pure musical expression. But here and now occurs the second reason: the extra-musical one. Reached and exceeded my fifty years, I felt the need to strongly say my Weltanschaung, to stage my highly critical point of view against the increasingly strong drive of Western society towards superficiality, colored and stupid exteriority, towards the circumvention of the deep and true questions of existence, a prelude, all this, to the obnubilation of consciences and to the their control. More than fifteen years ago, in my longest and most symphonic and vocal work (X Elegia) I used the last of the Duineser Elegien in which Rilke represents the current society (that of 1922 …) as a large amusement park whose lights and noises anesthetize every existential question. The first choice I made of a theatrical text, that of Pushkin, sees on stage in a single closed place five characters that remove, celebrating, the impending danger of a plague epidemic, a transparent metaphor of a Western man who is increasingly trying to neutralize, to exclude from itself, all painful awareness of the human condition, the “cosmic” as the terrible reality of the billions of hungry and poor men around us. In this sense, with the Legend of the Great Inquisitor one touches a peak of literature and meaning difficult to overcome and full of different implications. I focused on two of these, ignoring others, such as the question on the reason for human suffering placed in the “rising” of the Legend and that opens the way to reflection on human freedom. The Inquisitor is the exact embodiment of power in its most disturbing and unfortunately more contemporary form. That is not the showy and explicit power, that of the dictatorships of every age that, even if painful and infamous, often have the unwanted (for them) side effect of provoking a deep revolt consciousness, but the power that subtly snares and cancels consciences and reaches its masterpiece in making believe that the flattening of thought is the good for men (we will convince them that they are only poor children, and that childish happiness is the sweetest, says the Inquisitor in his monologue). From this power it is much more difficult to free oneself because it confuses the true notion of freedom, nullifying all awareness: how not to think about the subtle media power in which we are constantly immersed in every moment and every aspect of our existence, so skilled in the anesthetizing every deep tension? That’s why I think that a only line links my three successive choices of Rilke’s X Elegia Duinese, the Puskin plague’s Festino and the legend of Dostoevskijana. But unlike in the other two, here it is an invincible, moving alternative, and it’s not necessary to be believers, to remain emotionally involved: the silent final embrace of the “presumed Christ imprisoned” with the Inquisitor, that is the one who has just sentenced him again to death as guilty of having raised man to the supreme dignity of freedom, that is, the contraposition between the supreme, invincible and undiscussable value of Love and the spine-chilling and bitter cynicism of the Inquisitor, that embrace is the definitive answer and also it seals in me the path that led me in almost twenty years from X Elegia to Il carro e i canti and finally to Leggenda.


1PROLOGO (orchestra)

2SCENA I – Sette passi
(Ivan, Aliòša e orchestra)

Passo I a (Ivan)
Passo I b (Aliòša)
Passo II a (Ivan)
Passo II b (Aliòša)
Passo III a (Ivan)
Passo III b (Aliòša)
Passo IV a + b (Ivan, Aliòša)
Passo V a (Ivan)
Passo V b (Aliòša)
Passo VI a + b (Ivan, Aliòša)
Passo VII a (Ivan)
Passo VII b (Aliòša)
Coda (Ivan, Aliòša)

3SCENA II – Sevilla
(Coro, Madre, orchestra e strumenti in scena)

Parte I
a (solo orchestra e orchestra+coro)
b (coro e orchestra)
a’+ c (orchestra + coro)

Parte II
a (coro e orchestra)
b (Madre e orchestra + coro)
c (b’) (coro + Madre e orchestra)

4SCENA III – Responsori
(Inquisitore, sestetto vocale, Ivan, Aliòša e orchestra)
I Responsorio (Inquisitore, sestetto vocale)
Coda (Ivan, Aliòša)
II Responsorio (Inquisitore, sestetto vocale)
Coda (Aliòša)
III Responsorio – Echi in retrogrado
(Inquisitore, sestetto vocale + Ivan e Aliòša)

5SCENA IV – Proposte
(Spirito del Non Essere, Inquisitore, Ivan, Aliòša, sestetto vocale e coro)

Prologo (coro e orchestra)
I Proposta (Spirito del Non Essere, Inquisitore, Aliòša, sestetto vocale e coro)
II Proposta (Spirito del Non Essere, Inquisitore, sestetto vocale e coro)
III Proposta (Spirito del Non Essere, Inquisitore, Aliòša, sestetto vocale e coro)
Coda di Scena IV (Aliòša, Ivan)

6EPILOGO
(orchestra + Inquisitore, Aliòša e Ivan)
Rituale (orchestra)
L’abbraccio (orchestra)
Il distacco (Inquisitore)
Il viaggio-Variazioni (orchestra)
“e il vecchio…?” (Aliòša, Ivan)
Coda (Exit)


exRASSEGNA STAMPA

  • http://www.ilcorrieremusicale.it/2011/09/12/leggenda-nuova-opera-di-alessandro-solbiati/
  • http://unavocepocofa915.blogspot.it/2011/09/leggenda-di-alessandro-solbiati-teatro.html
  • http://www.lastampa.it/2018/02/14/torinosette/eventi/presentazione-dellopera-leggenda-di-solbiati-al-teatro-regio-RcX7ptV3biUrM6gmhGcwxL/pagina.html?to7%5Bdata%5D%5Btype%5D=varie_provincia
  • http://www.recensito.net/index.php?option=com_content&view=article&id=2291:torino-al-carignano-va-in-scena-leggenda-di-alessandro-solbiati&catid=10&Itemid=126
  • http://www.circuitomusica.it/events/4562/leggenda-di-alessandro-solbiati-proiezione-video
  • http://www.gbopera.it/2011/09/torino-teatro-carignanoleggenda/

 

REFERENCE